L’energia è al centro della ricerca di Donato Piccolo, come stasi e movimento, sclerosi e rigenerazione, implosione ed esplosione, in una visione olistica della realtà in senso allargato. Come un entomologo attraverso una lente bifocale scientifica e filosofica e con attitudine sperimentale, manipola processi instabili fisici e psichici, naturali e artificiali ricreandoli in laboratorio, nell’idea che la trasformazione sia la sostanza intrinseca della realtà.
Patrizia Ferri: Il tuo iter si basa su un procedimento lineare ma complesso, in un certo senso ribaltato rispetto a quello dell’arte concettuale…
Donato Piccolo: L’arte concettuale parte dalla rappresentazione di un concetto, mentre per quanto mi riguarda mi baso sull’idea in mutamento e del mutamento, nel senso che l’opera si realizza partendo dall’idea ma si trasforma in qualcos’altro. Mi concentro sull’“esperienza della scoperta”, sulla verifica dei limiti dell’esperienza del reale, partendo dalla comprensione emozionale dell’oggetto, attraverso una ricerca sui fenomeni percettivi: credo in un’arte come dimensione alternativa tra visione e concetto.
PF: L’arte per te è un percorso di conoscenza dei processi individuali estendibili a quelli universali. Come rapporti i cosiddetti minimi con i massimi sistemi in un momento dove stanno saltando i comuni parametri non solo artistici di comprensione e incidenza sulla realtà?
DP: È fondamentale perdere i comuni parametri di comprensione del reale, ciò significa doversi porre domande diverse, trovare formule adatte al cambiamento a cui stiamo andando incontro non solo nei rapporti individuali, ma soprattutto in quelli universali riguardanti l’interpretazione e il senso dell’esistenza. Urge immaginare l’arte come un qualcosa in grado di interrogarsi sulle potenzialità della nostra vita ovvero sulla percezione che abbiamo di questa, capace di concorrere più che a migliorare, a vedere il mondo con uno sguardo diverso, che sia portatrice dei presupposti di un cambiamento radicale. Ritengo che il lavoro di un artista vada al di là del suo limite fisico: stimolando a vedere la realtà con occhi nuovi spinge a mettere a fuoco potenzialità psicologiche, intellettive e affettive non sondate, che non immaginiamo neanche di avere…
PF: I tuoi ultimi lavori sono teche trasparenti dove succede di tutto, uragani, tornado, arcobaleni elettromagnetici riprodotti in laboratorio come una sorta di “campi di resistenza”: i fenomeni naturali sono il rispecchiamento delle atmosfere dell’interiorità dove in un’asetticità formale cerchi di agganciare, coinvolgere emotivamente chi guarda. Che valore dai all’abusato concetto di interazione?
DP: L’interazione nei riguardi dell’opera può non essere esplicita. Per esempio, l’immagine della Gioconda è stata modificata da tutti quei turisti che cercano di scattare foto per sentirsi in qualche modo parte dell’opera che diventa così in un certo senso interattiva. Ma le opere che mirano solo ad avere delle finalità interattive spesso si rivelano giochetti fini a se stessi, a quel punto meglio un buon videogame. A me interessa la natura e il rapporto che la lega all’umano, oggi completamente scisso, cosa che ci porterà sicuramente all’autodistruzione: tutti gli esseri del pianeta di fatto partecipano con la natura a un unico cervello strutturato come una “rete” come dice Fritjiof Capra e prima di lui le filosofie orientali. Tutta la nostra esperienza psicosensoriale è interattiva perché vive in noi, di noi, cosa che io cerco di comunicare come tensione continua.