Salvatore Bellavia: Vivi a Torino da poco più di un anno. Mi piacerebbe sapere quali sono le tue attività, i tuoi progetti torinesi…
Driant Zeneli: Partecipo a “situa.to”, un progetto che, partito a metà marzo grazie al sostegno della Regione Piemonte e curato da a.titolo, Andrea Bellini e dall’architetto Maurizio Cilli, si propone di leggere i complessi mutamenti urbani e sociali per realizzare strumenti che sappiano rispondere al desiderio di qualità dello spazio pubblico da parte di chi lo abita e lo attraversa. Particolarmente interessante è il carattere interdisciplinare del gruppo, costituito da trenta ragazzi di diversa formazione — architetti, artisti, antropologi…
SB: Parlami dei tuoi ready made, o più precisamente rivisitazioni del ready made, in particolare dell’opera Il Confessionale (2007), che ha una storia che vale la pena d’essere raccontata per il potenziale narrativo che possiede.
DZ: Il Confessionale è il mio primo ready made. Invitato a una collettiva a Tirana, dal titolo “Tell a Story”, decisi di non raccontare una storia, ma di esporre un oggetto che raccoglie delle storie: il confessionale. Iniziai a cercarne uno per Tirana, che è una città di cultura musulmana e ha poche chiese, tra l’altro prese d’assalto in quel periodo per le festività natalizie. Interpellai persino il vescovo, che mi rispose che gli artisti dovrebbero creare e non appropriarsi di oggetti già costruiti. “Di creatore ce n’è uno. Noi dobbiamo solo spostare le cose”, gli risposi, strappandogli così un sorriso, ma non il confessionale. I curatori si erano appassionati al progetto e pochi giorni prima dell’inaugurazione decidemmo di farne costruire uno. Inoltre i falegnami erano musulmani e si sentivano in colpa per il fatto di costruire un oggetto per loro quasi peccaminoso! Ma alla fine lo portarono in mostra con entusiasmo e appena in tempo. Conclusa la mostra, il confessionale fu regalato a una chiesa in costruzione in Albania, diventando così da oggetto d’arte, oggetto d’uso, un ready made al contrario.
SB: Un tuo video si intitola Too Late (2008), nella sua brevità mi pare di potere cogliere un’atmosfera nostalgica. Che significato ha il tempo nel tuo lavoro?
DZ: Non ho ancora capito se siamo noi a influire sul tempo o se il tempo influisce su noi…
SB: Nei tuoi lavori si condensano momenti epifanici causati da fatti casuali. A volte è un evento fortuito a ispirarti, come nel caso del video All art has been… temporary (2008), altre volte però sei tu a creare la situazione all’interno della quale lasciare accadere l’evento, come nel più recente Prova d’orchestra (2010). Che importanza ha per te il caso?
DZ: Non mi chiedo che tema devono trattare i miei lavori, mi interessano gli elementi che creano tanti temi. Un elemento del mio lavoro è il caso. Michel Blazy afferma che gli incidenti hanno cambiato la storia; tante volte si nasce o si finisce per un incidente. Nel caso di All art has been… temporary, tre lettere dell’installazione di Maurizio Nannucci (All art has been contemporary) alla GAM di Torino si erano a un tratto spente, e io da curioso osservatore ho colto l’attimo. Per Prova d’orchestra, i musicisti dell’orchestra J. Futura sono stati invitati a una cena dal loro direttore, con la scusa di un film che si sarebbe dovuto fare sulla loro vita. Durante la lunga cena i musicisti si sono messi in gioco, performando spontaneamente, inconsapevoli delle riprese. Aspettare il caso o essere consapevoli del caso è come abituarsi a guardare nel buio.