Charles Saatchi ci ha spiegato l’orrore del sistema dell’arte contemporanea. Con poche lapidarie frasi a effetto ha cercato di spazzare via anni di marachelle da lui combinate, forse sentendosi sorpassato da altri nella capacità mediatica di combinarne di cotte e di crude.
Saatchi non fa più notizia da un bel po’. Gli yacht che contano, ormeggiati a Venezia per la Biennale sono altri: Abramovich, Pinault… e forse da bravo pubblicitario, da grande comunicatore si sarà chiesto come tornare sulla cresta delle notizie. Un attacco a testa bassa gli appare la mossa migliore. Pentito? Mica tanto. Lui compra e vende e coi soldi ricompera. Ma allora è un commerciante? Parrebbe di sì, smentendo l’incipit del suo scritto-di-dolore: “Comperare opere d’arte di questi tempi è un’attività assolutamente e indiscutibilmente volgare”. Peccato che lui continui a praticarla con impegno degno-quindi-di miglior causa: “Se realizzo profitti vendendo un’opera li utilizzo per comperarne altre. Buon per me, visto che posso andare avanti a comperare in continuazione opere nuove da sfoggiare…”. Ohibò! Da sfoggiare? Questa gli è scappata… Dunque Mr. Saatchi, Esq. le opere le sfoggia. Dal tono moralistico pensavo che le guardasse, studiasse, ponderasse, invece le sfoggia come quei ricchi cafoni che fustiga e stigmatizza nel suo articolo tranchant.
Qualche anno fa ho scritto un intervento al primo Festival di Faenza dai toni forse altrettanto apocalittici. Il titolo era Supermarché e il succo era che il vecchio sano mercato era diventato oramai un Supermercato, fuori controllo, talmente potente da poter decidere e indirizzare movimenti, carriere, successi. Sul palco con me tra gli altri c’erano le gallerie Gagosian, Massimo De Carlo, Continua, Scudo, e immagino che qualcuna si sarà sentita attaccata dalla mia foga savonaroliana… Come dire, Charly ci arriva solo ora? Dormiva e non se n’è accorto prima? Ma adesso è tardi. D’altro canto lui arriva sempre tardi ed è per questo che ora cerca di recuperare. Scrive infatti: “È per me motivo di conforto che le nostre mostre abbiano ricevuto recensioni poco lusinghiere fin da quella, nel 1985, con Warhol, Judd, Twombly, Marden…”. Come dire, noi eravamo avanti, allora, ma nessuno ci capiva. Peccato che a “noi” (italiani) invece Twombly piaceva già dal 1960, Warhol dal 1964, Judd e Marden dal 1968… poi arriva Charly, Esq. e vent’anni dopo fa il martire? “Come on!” direbbero a Londra. Il fatto è che noi (italiani) con l’arte abbiamo consuetudine da migliaia di anni, e questi qua adesso vengono a farci la morale.
Allora preferisco il pessimismo di Jean Clair, che se la prende — a ragione — con il franchising del Louvre ad Abu Dhabi, con Beuys che proclama “ogni uomo è artista, tutto ciò che fate è arte”, con le opere contemporanee che paiono dei “bricolage”.
Un Jean Clair che difende le ragioni della Pittura che oggi pare tornare a essere riconsiderata dopo anni di sbeffeggiamenti di cui “Sensation” e tutte le altre manifestazioni del Saatchi-Pensiero erano il braccio armato per ammazzarla.