Da diversi anni, Ed Atkins (Regno Unito, 1982; vive a Londra) mette in gioco un universo formale i cui confini sembrano essere andati gradualmente smaterializzandosi. Attraverso il linguaggio dell’immagine generata al computer e uno stile letterario decisamente anticlimatico, la sua opera è arrivata a toccare in maniera inedita la possibilità dell’affezione corporea ed emotiva – in altre parole, della relazione a sé e all’altro – in un contemporaneo alle prese con dispositivi di mediazione tanto utili quanto facili da abusare. Tra gli strumenti del video, dello scritto, della performance e del disegno, è senza dubbio in quello del video che Atkins ha trovato una chiave d’ingresso nella percezione spesso in default del suo pubblico.
In Ribbons (2014), un’installazione video a tre canali interamente realizzata al computer, un avatar prefabbricato e acquistato online dall’artista – una sorta di alter ego per eccellenza – ci viene mostrato negli interstizi atemporali di un quotidiano in cui presumibilmente lavora, declama frasi verbose, si versa ripetutamente da bere, si abbandona a flatulenze di vario genere, canticchia ubriaco brani malinconici. Come tanti dei protagonisti dei video di Atkins, anche quello di Ribbons – di nome Dave – abita un’esistenza surrogata le cui esternazioni, generalmente nella forma del soliloquio, oscillano tra il colto e il profano, il discorso brillante di un sé presentabile e socialmente performativo e i comportamenti antisociali di un quotidiano vissuto dietro allo schermo. Alto e basso, in ultima istanza, si fondono in una continuità che è più vicina allo spettatore di quanto lo siano mai state le immagini che gli scorrono davanti.
A fungere da dispositivo diegetico per collegare le scene che avanzano parallelamente nei tre video di Ribbons, appaiono a più riprese dei buchi neri dai quali è sempre lo stesso avatar a spiare e a essere spiato, a protrudere la lingua o esporre i genitali. L’altro non lo vediamo mai. Non sentiamo chi c’è al servizio clienti chiamato per un’urgenza in vista di una scadenza, né sappiamo chi sia l’oggetto del patetico struggimento dell’avatar. Poi il disegno di un buco ― lo stesso buco che funge da operatore narrativo ― appare in uno dei video accanto alla scritta “don’t die”: in questo dettaglio, qualcosa si offre come indizio della rilevanza del tema della morte nell’intera opera di Atkins. Uno dei principali riferimenti dell’artista è l’immagine cadaverica di cui scrive il filosofo francese Maurice Blanchot, qui in funzione in tutta la sua forza operativa. Per il filosofo francese il cadavere, che costituisce l’immagine limite di ciò che è presente a noi nella sua assenza, diventa figura dell’immagine stessa. Non sorprende che l’iscrizione “don’t die” si ripeta di nuovo sulla pelle tatuata di Dave accanto a scritte quali “love”, “hater” e “troll” (nel gergo di Internet il soggetto che interagisce in rete con messaggi fuori luogo e irritanti). Mentre canticchia “I’ve only sad stories to tell to this town / my dreams have whitered and died”, Dave si versa da bere – whiskey, plasma e urina riempiono a turno il bicchiere.
Gli avatar di Atkins abitano il mondo intermedio delle molte esistenze digitali prive di un referente materiale; eppure la loro non è una dimensione completamente simulacrale: a differenza del simulacro di cui scriveva Baudrillard, sintomo disancorato dalla propria patologia, l’avatar si aggrappa al corpo in quanto ha di più proprio, ovvero la voce, che a differenza della figura generata al computer possiede un referente tangibile nella persona dell’artista. È dunque la voce di Atkins che sentiamo recitare, intonare un’aria di Bach (“Erbarne dich, mein Gott”, dalla Passione secondo Matteo, 1727), un brano pop (“I Think It’s Going to Rain Today” di Randy Newman, 1968), un canone di Henry Purcell del 1730 – “Tis woman makes us love / Tis love that makes us sad / Tis sadness makes us drink / And drinking makes us mad”. I video terminano con l’avatar seduto al tavolo di un pub, sulla fronte una scritta al contrario rivolta a nessuno all’infuori di un potenziale sé che la legga allo specchio: “bankrupt” – come a dichiarare la bancarotta emotiva. E la testa di Dave si affloscia come un palloncino bucato, ad assicurarsi che non ci sia sospensione del giudizio davanti all’immagine artefatta.
Con il video Happy Birthday!!! (2014) l’altro, il grande assente, entra nell’inquadratura. Non ne vediamo però mai il volto. Come spesso nei lavori di Atkins, l’alterità ci rimane inaccessibile. Un avatar di mezza età abbraccia un altro personaggio che rimane di spalle. A differenza di Dave, il protagonista di Happy Birthday!!! è vestito e ha un bel taglio di capelli. Anche lui ha una scritta in fronte, “2016”. A voce, confuso, ricapitola altre date in una sorta di litania temporale. La ritualità del compleanno porta con sé la scansione di un tempo che sfugge, un nero fiume in piena pari al vomito che ininterrottamente esce dalla bocca dell’avatar. Mentre guardiamo il video le parole del ritornello “you were always on my mind” risuonano nello spazio espositivo, ovattate come se le stessimo udendo sott’acqua: anche noi, ci dice l’audio, finiamo sommersi nell’oscurità liquida del video. Più dell’immagine, è infatti il sonoro del video a convocare ancora una volta il corpo del visitatore. Se il video marca una distanza tra l’immagine e il corpo (l’avatar esiste solo digitalmente, il tocco della sua mano sui capelli dell’altro personaggio non produce alcun effetto palpabile), l’impianto sonoro avvolge invece il visitatore nello spazio. Le frequenze dell’audio penetrano il nostro corpo che lo vogliamo o meno, ci respingono o seducono con una tonalità affettiva che conosciamo anche se non siamo certi ci corrisponda. Come una formazione tumorale, l’opera si insinua in noi. (Non è un caso che Atkins abbia paragonato le sue opere, che siano scritti o video, a dei tumori: esistenze la cui realtà eccede la nostra volontà, capaci di presentarsi a noi secondo le proprie forze).
In Warm, Warm, Warm Spring Mouths (2013) un avatar dalla chioma innaturalmente lunga, come fosse stato per assurdo dimenticato nello spazio digitale dal suo programmatore e i suoi capelli fossero paradossalmente cresciuti, declama una poesia di Gilberto Sorrentino (“The Morning Roundup”, 1971). L’avatar si annoia in un interregno temporale, parla a un auricolare senza che noi possiamo udirne la conversazione mentre un sipario di capelli apre e chiude le scene. La sua chioma fluttua in uno spazio digitale monocromo, ora bianco ora scuro come il fondale marino sul quale sembra essere sprofondato. Un clavicembalo barocco accompagna un’attesa senza scopo, un brano della Walt Disney (“A Whole New World”, da Aladdin 1992) richiama i capelli della sirenetta in fondo al mar. Il testo, come in tutti i lavori di Atkins, è smembrato e distribuito tra lo scritto che appare nel video in varie forme – annunci, sottotitoli e scritte sugli oggetti – e la voce che ne recita dei frammenti. La poesia di Sorrentino termina con la frase “The weathers, the weathers they lived in! Christ, the sun on those Saturdays”, senza null’altro dire di quelle giornate soleggiate che pure evoca. Un sottotitolo annuncia la saturazione e l’obsolescenza dell’esperienza. Completamente bianco, senza immagine se non un abbaglio, il video termina con il solo sonoro di una voce che tenta di produrre quel ricordo incapsulato nella poesia. I dettagli di una giornata di sole vengono quindi enumerati uno dopo l’altro, mentre un sottofondo sonoro di braci e stoviglie ci insinua nello spazio mentale del ricordo come se ora fosse diventato il nostro stesso ambiente.
In Even Pricks (2013) il linguaggio estetico e la scrittura lapidaria del videogioco fungono da cornice all’animazione digitale tanto quanto i numerosi riferimenti colti, musicali e poetici, che costellano l’intera opera di Atkins. Il testo del video è ancora una volta distribuito tra titoli, sottotitoli e voce narrante. Alla stessa maniera di Dave in Ribbons, una scimmia declama frasi scritte dall’artista in un inglese dallo stile elaborato e complesso. Protagonista del video insieme al primate, una mano ruota verso la posizione pollice verso. Il polso si torce, il pollice in su ora si gonfia ipertroficamente come una membrana sul punto di esplodere, ora si affloscia come un palloncino al collasso: parodia visiva della scarna opzione binaria del mi piace/non mi piace e al contempo sofisticata mise en abyme del linguaggio macchina dello zero e dell’uno. Lo script da cui origina il video partecipa della dinamica antiepica che anima l’intera opera di Atkins: un semplice “we just got home from work” prende la forma visiva di qualcosa come l’enfatico annuncio di un passaggio al livello successivo di un gioco, mentre la declamazione di brani altamente poetici viene interrotta senza troppe cerimonie. La componente visiva è sottoposta a procedimenti di scomposizione che seguono una logica che è quella della poesia, il testo trattato alla stessa stregua dell’immagine.
Anche i sottotitoli, nell’opera di Atkins, sono trattati come dispositivi diegetici alla pari dell’immagine. Talvolta, come in Safe Conduct (2016), appaiono come riquadri senza testo, forme geometriche monocrome il cui colore deriva da un campionamento delle cromie dell’immagine. In essi il linguaggio è esposto nella sua assenza, presente al grado zero, come direbbe Roland Barthes. Il riferimento di Safe Conduct risiede anche nella goffa e stereotipata produzione di immaginario che ci riservano gli aeroporti, con i loro video pedagogici sulle istruzioni da seguire per passare il controllo di sicurezza e la retorica del controllo che segue parametri codificati, cui sfugge tutto ciò che nel corpo non è regola ma eccesso. Un ananas, quel pollo arrosto che abbiamo tutti guardato con ironia sui cartelli degli oggetti che è vietato portare in aereo, un rene e un cervello sono tra gli oggetti che il protagonista del video ripone nei contenitori per l’ispezione ai raggi X. Una pistola, multipli in miniatura dell’avatar, un intestino, delle bistecche e del plasma finiscono anch’essi sul rullo per il controllo. Nello spazio espositivo, proveniente da una fonte separata da quella del sonoro del video, il Boléro di Ravel commenta spagnoleggiante. L’avatar, che scolla ripetutamente il proprio volto come fosse un effetto prostetico, dimentica di recuperare la propria testa che gli scorre davanti guardandolo. Mentre dei contenitori girano a vuoto sui nastri trasportatori, una scritta nella grafica aeroportuale recita tra il serio e il faceto “Love doesn’t make the world go round. Love is what makes the ride worthwhile”. Lo stesso avatar era già stato protagonista di Hisser (2015). Installato per la prima volta in un vecchio edificio fatiscente dell’isola di Büyükada in Turchia, il lavoro si serviva di un impianto sonoro che pareva far tremare l’intera costruzione sotto i piedi dei visitatori. L’inquadratura del video coincide con una camera da letto. Alle pareti della stanza campeggiano dei poster con su scritto “no fear” o “hang in there”, sopra all’immagine di un gattino aggrappato a un ramo; sui ripiani della libreria la copia di un fantomatico manuale, Find the Love of Your Life After 50!, appare più volte. Un monitor al suolo si apre verso uno spazio astratto in cui il nostro avatar cammina nudo fischiettando e rimuginando delle scuse. Lo ritroviamo nella camera che si compatisce, parla nel sonno, canticchia da solo e si masturba davanti a un test di Rorschach, all’immagine di una scultura e di un dipinto, al suono di “Don’t Go Breaking My Heart” di Elton John e Kiki Dee (1976).
Poi con un effetto speciale la stanza si disancora dallo sguardo del visitatore e risale l’inquadratura sempre più velocemente, ripetuta all’infinito come in una stringa di slot machine. A rendere la ripetizione tangibile, nello spazio espositivo il video è installato più volte, identico a se stesso nei diversi livelli dell’edificio, moltiplicabile da un minimo di due volte per un numero illimitato di piani. “Running-through the already ran-through”, già recitava la voce di Even Pricks rinviando alle molte forme del preconfezionamento delle esperienze.
Il video prosegue. Un tremore, e il letto in cui dorme il protagonista sprofonda in una voragine. Il motivo, ricorrente nel lavoro di Atkins, è ispirato a un episodio di cronaca avvenuto nel 2013 in Florida, dove una dolina si aprì nella notte sotto la stanza di un uomo uccidendolo nel sonno, non lasciando alla vista che un buco nero – come un hard disk collassato in un istante con tutta la memoria che custodiva. Nel buco sparisce l’altro, confinato nello spazio astratto del video e insieme, nello spazio espositivo, corteggiato dalla concretezza dell’opera che è allestita in modo da produrre un’esperienza immersiva capace di convocare i sensi del visitatore. Dove veniamo posti dinanzi a un mondo inconsequenziale, in cui possiamo agire per mezzo di surrogati senza ripercussioni che ci siano direttamente imputabili, qui – ci dice l’artista – dobbiamo anche fare i conti con la corporeità ineludibile di una presenza che è in ultima istanza presenza all’altro.