Glenn Philips: Entrambe siete cresciute in luoghi diversi degli Stati Uniti — Judy, tu eri a Chicago, Eleanor, tu a New York — e poi siete andate a Los Angeles negli anni Sessanta, quando eravate delle giovani artiste. Qual è stata la prima impressione che avete avuto di Los Angeles?
Judy Chicago: Io arrivai nel 1957 per andare alla UCLA. Ricordo che scesi dal treno alla Union Station guardando tutti quegli edifici bianchi bassi che pareva lievitassero. La UCLA era piena di eucalipti e alberi di arancio, non c’erano molti palazzi, e il cielo era blu. Mi sono laureata nel 1964 e cominciai a insegnare part time a Irvin. Los Angeles era come un paradiso, un posto molto diverso da ora. Ed era anche molto economico viverci: potevi vivere infatti con 400-500 dollari, incluso l’affitto di un grande studio per lavorare.
Eleanor Antin: Io sono venuta qui dieci anni dopo. Ricordo che guardavo giù dall’aereo e vedevo le piscine… migliaia di fagioli blu chiaro senza fine! Poi andai a San Diego dato che mio marito David lavorava lì. Entrambi volevamo disperatamente lasciare New York. Era stato molto eccitante stare a NY e avevamo buoni amici tra i minimalisti, gli artisti pop, i membri dello Judson Theatre… ma dopo un po’ aveva cominciato ad annoiarci! Allan Kaprow suggerì a David di gestire la galleria UCSD a San Diego — quella che divenne il Center for Music Experiment. Così decidemmo di trasferirci lì con il nostro bambino di un anno. Arrivammo il giorno in cui Robert Kennedy fu assassinato e appena 24 ore prima che Andy Wharol e il suo amico italiano Mario Amaya venissero colpiti da Valerie Solanas.
Patrick Steffen: Sembra che fosse un momento pericoloso per gli Stati Uniti, specialmente per un artista.
EA: Era un momento pericoloso per tutti. Anche a Martin Luther King avevano sparato un mese prima. Era un momento difficile, in un certo senso non diverso da oggi…
JC: Era un periodo difficile ma eccitante per un’artista donna; era proprio l’inizio dell’arte femminista. Ricordo di aver letto SCUM Manifesto di Valerie Solanas e non riuscivo a credere che lei stesse veramente dicendo quelle cose. Era un vero tabù per quei tempi!
GP: Eri ancora in contatto con la scena artistica di NY?
JC: Presi un anno di pausa dalla scuola e vissi a New York dal 1959 al 1960. Vidi tutti i lavori degli espressionisti astratti. Ero sicuramente consapevole di quello che stava accadendo a NY, ma stavo esponendo qui nella California del Sud. Arrivai come studente e cercai di formulare le mie prime idee.
EA: Io ero ancora legata a New York attraverso le gallerie. Ma rapidamente rimasi coinvolta con il movimento femminista grazie a Suzanne Lacy e Arlene Raven, e cominciai a fare performance in presenza del pubblico per la prima volta al Woman’s Building nel 1973. Un giorno, Craig Kauffmann mi chiese se volevo insegnare all’UC Irvine, e insegnai lì per due anni, prima di andare definitivamente alla UC San Diego per trent’anni. Anche Bas Jan Ader era alla Irvine… Quando lasciammo per l’estate, chiesi a Bas Jan se sarebbe ritornato in autunno. “Sto facendo questo lavoro, non so. Lo spero…”. Non sapevo cosa volesse dire. Così ci stringemmo la mano e ci dicemmo arrivederci. Non l’ho più rivisto.
JC: Una delle cose che la tua storia suggerisce è quanto più aperte fossero le università prima, il che spiega il perché fu possibile per me cominciare il primo Feminist Art Program alla California State University. Ora i programmi d’arte delle università sono molto più rigidi; c’è molta più competizione e mancanza di reciprocità.
GP: I programmi universitari nella California del Sud erano estremamente aperti, ma comunque era difficile per una donna fare una mostra. Eleanor, ho guardato tra i tuoi archivi, che il Getty Research Institute ha appena acquisito. Sono rimasto sorpreso da quanto hai fatto fatica per fare una mostra…
EA: Ecco perché ho scritto un sacco di lettere brutte e cattive alle persone che non includevano il mio lavoro nelle loro mostre. Amavo fare questo! E ho scritto lettere cattive alle scuole chiamandoli “porci sessisti!”
JC: Io non avrei mai pensato di fare questo, nonostante anche io sia una scrittrice!
EA: Io mi ritenevo un’artista concettuale e credo di esserlo ancora, ma avevo un’idea più ampia di ciò che significasse, ed ero anche totalmente nella narrazione, che non era una cosa molto popolare all’epoca, e il teatro era al centro del mio lavoro. Ho solo seguito la mia voce. Il mio lavoro era pieno di implicazioni femministe, e non somigliava a quello Joseph Kosuth o Dan Graham. Forse per certi aspetti somigliava più a quello di John Baldessari per la comicità. Nel mio progetto Domestic Peace (1971) risultavo totalmente idiota ai galleristi! Michael Sonnabend prese tempo per spiegarmi quanto fosse insensibile la mia linea, e mi mostrò un disegno di Jasper Johns. “Ora, ecco una linea”. Pensavo che stesse per piangere.
PS: Judy, tu non hai scritto lettere cattive, ma hai distrutto il tuo lavoro.
JC: Ho distrutto i miei primi lavori per un paio di motivi. Ho avuto molti problemi durante la laurea. Tutti amavano i colori schifosi, influenzati dall’estetica di Rico Lebrun: ocra, verde vomito. Cominciai come pittrice e poi passai alla scultura perché i miei insegnanti maschi odiavano i miei avorio, turchese e rosa. Odiavano anche il mio immaginario naive proto-femminista. Per questo distrussi tutti quei dipinti. Alla fine, finii con avere un doppio master in pittura e scultura. Quando uscii dalla scuola, eliminai ogni allusione al genere dai miei lavori e cominciai a fare grandi sculture minimali. Ma ero giovane e fuori dal giro. Per esempio, non sapevo che il mio lavoro Rainbow Pickett (1965-2004) era nella mostra “Primary Structures” a New York. Avrei dovuto prendere un aereo e andare all’inaugurazione. E così ho cominciato a lavorare a tutte queste cupole gonfie, e un giorno ho chiesto a Irving Blum di venire da me a vederle. Tutto ciò che disse fu: “Oh, la Venere di Willendorf!”. Il mio contenuto era completamente inaccettabile. E distrussi il lavoro a causa di Walter Hopps, che era solito visitare gli studi. Mi spezzò il cuore rifiutandosi di venire a vedere il mio.
GP: Parliamo della storia, che rappresenta una grande parte del tuo lavoro. Judy, il tuo lavoro riguarda il reclamare la storia e la sua mutevole importanza, mentre il tuo lavoro Eleanor vuole prendere la storia nelle proprie mani e riscriverla in un modo che si sposi meglio con la tua immaginazione.
JC: Io non penso che i nostri impulsi siano differenti: sono solo due manifestazioni diverse. Nel mio caso, ha a che fare con l’integrare all’interno del mio lavoro le informazioni storiche sulle donne che sono state cancellate dalla storia — ingiustamente.
EA: Io sono veramente cresciuta con la storia. Ho avuto un incredibile legame con la cultura Yiddish e il Bolscevismo, entrambi dei quali erano sul punto di scomparire. Sono cresciuta con una passione per la Russia, era il centro della vita di mia madre. Lei era stata un’attrice nella scena Yiddish in Polonia e un’ardente stalinista. Ho sempre preso lezioni di danza e di arte, e mi piaceva molto. Sai, io sono romantica, e c’è sempre una malinconia al centro della storia perché è andata. Anche se è divertente — comincio a vedere l’ironia della commedia — è una specie di cosa ebraica. Risa e lacrime, pathos e commedia.
JC: Anche io vengo da un contesto di sinistra, e la passione di mio padre per la storia mi diede l’idea di guardare dentro la storia per vedere se era giusto che le donne non avessero dato contributi alla storia, che è quello che mi hanno insegnato al college. Oltretutto, all’epoca, quasi non c’erano donne nei musei o nelle gallerie!
EA: Le donne non erano nei libri. Ricordo di aver letto il libro Pittori francesi del Diciottesimo Secolo dei fratelli Goncourt (1859-1875) e per esempio Vigée Le Brun non c’era.
JC: Questo è esattamente quello che intendo quando dico che le donne sono state cancellate dalla storia. Per alcune persone, la storia può essere minacciosa, ma io sono venuta su con l’idea che il mondo potesse essere cambiato.
GP: Noi diamo per scontato che gli artisti maschi vivano la competizione come una parte di quello che fanno. Ma certamente vedo molta competizione tra artiste donne oggi. Qual è la tua esperienza?
EA: La competizione è così importante? Io vengo da New York dove c’era una scena molto calda. Quelle persone erano così competitive l’una con l’altra, ma per me non era questo il punto. Quando la scena artistica femminista ebbe inizio qui in California, c’era molto supporto, un approccio differente.
JC: Quando ero una giovane artista, ogni volta che venivo trattata male, mi rendevo conto che era perché ero donna ed era vero. Comunque, non mi è mai passato per la testa che le artiste donne fossero trattate male per il semplice fatto di essere delle artiste. Mi ci è voluto molto tempo per rendermi conto di questo. Ero molto naive, una giovane donna idealista, e quando uscivo con i ragazzi alla Barney’s Beanery, ero terrorizzata dal come fossero così terribilmente competitivi l’uno con l’altro. Io ho sempre creduto che un gruppo dovesse essere di sostegno! Così decisi di fare un cambiamento radicale nella mia arte realizzando e cercando di costruire una pratica artistica femminista. Ho portato una serie di valori, che riguardavano la collaborazione e il supporto, e questo era molto diverso da quello che sembrava essere accettabile a New York tra gli artisti sia uomini che donne. Questa è probabilmente una delle cose che ha distrutto il mio rapporto con Miriam Shapiro: lei era molto competitiva e non avrebbe neanche potuto immaginare un altro genere di rapporto. Poi, nel 1979 quando il Dinner Party entrò nel mondo, ci furono alcune persone che non riuscivano ad avere a che fare con un’opera d’arte basata su principi femministi: supporto, collaborazione e conoscenza e dare spazio a tutti. Era un paradigma completamente differente, ed è sempre stata la mia responsabilità — nel mio studio e nel mondo.
EA: Io penso che The Dinner Party sia una delle più grandi performance del nostro tempo. Ecco come la vedo io, una performance.
JC: Grazie!
EA: La mia visione della scena di New York era così diversa, forse perché mi stavo formando come artista, non notavo queste cose. Ma la cosa più cattiva che mi hanno fatto è stata fatta da una donna. È successo durante i giorni di 100 Boots (1971-73). Ero a New York per visitare le gallerie. Stavo chiacchierando con Carl Andre che stava visitando anche lui quella galleria, quando entra questa donna. Lei era un’artista concettuale e si voltò non appena mi vide! Carl ci presentò, ma lei si rifiutò di parlarmi e stette tutto il tempo ad adularlo. Si trattava di Lee Lozano e allora non sapevo che stava facendo il suo progetto Decide to Boycott Women, che consisteva nel non parlare con le donne per il resto della sua vita. Ma appresi questo alla mostra “WACK!” nell’anno successivo, quando fu presentato il progetto dell’opera. Realizzai che ero stata un inconsapevole elemento di un lavoro che lei aveva cominciato nel 1971 e che sarebbe continuato per 27 anni. Era un lavoro molto cattivo, orribile (seppur interessante) ed io ero stata una delle sue vittime!