La scena si svolge in un palazzo signorile di Parigi. Un uditorio immerso nella penombra è riunito in un salone doppio in stile neo-classico — due stanze in fila, decorate da alti specchi, un pianoforte, un lampadario, affreschi e alcuni bassorilievi dedicati a Diana e Apollo. Nella prima stanza c’è un orologio appeso. Si riconosce il tipico quadrante circolare delle Ferrovie Svizzere. L’audience, lì riunita per assistere a una performance, attende da una quindicina di minuti, presa dal torpore della meccanica del tempo, quella dei movimenti ineluttabili della lancetta dei secondi rossa accompagnata dalle altre due nere, dal design caratteristico. Elisabetta Benassi appare allora da una porta laterale, con una carabina Winchester in mano. Si sposta da sinistra a destra, carica il suo fucile, lo appoggia alla guancia e mira all’orologio. Fa una pausa e spara. Il vetro del quadrante esplode. Qualcuno grida. Lei si sposta allora sulla sinistra. Ricarica la Winchester. Prende di nuovo di mira l’orologio e spara un secondo colpo. Riarma la Winchester e spara un terzo colpo. Si distingue perfettamente l’impatto dei tre proiettili sul quadrante. Benassi abbassa l’arma, si allontana indietreggiando nella seconda parte del salone, riarma la carabina e mira all’orologio. La folla si scosta. Lei spara un quarto colpo. Poi abbassa il fucile, torna nella prima stanza, si avvicina al quadrante e spara un ultimo colpo a distanza ravvicinata. Il tempo si è letteralmente fermato. Gli spettatori sono muti. Elisabetta Benassi esce.
Arrêter le jour [Fermare il giorno, N.d.T.] (2014), così si intitola questa performance, crea un’immagine forte che rimanda direttamente alla nozione di blocco del tempo descritta da Walter Benjamin nel suo ultimo testo Sul concetto di Storia, riferendosi a un avvenimento spontaneo verificatosi durante le prime ore dell’insurrezione della Comune di Parigi nel 1871: “La sera del primo giorno di battaglia, in diversi luoghi di Parigi, contemporaneamente e indipendentemente l’uno dall’altro, si sparò agli orologi delle torri. Un testimone oculare, che dovette forse la sua precognizione alla rima, scrisse:
Qui le croirait! On dit qu’irrités contre l’heure,
De nouveaux Josués, au pied de chaque tour,
Tiraient sur les cadrans pour arrêter le jour.
[Chi potrebbe crederci! Si dice che irritati dall’ora,
Nuovi Giosué, ai piedi di ogni torre.
Sparavano sui quadranti per fermare il giorno — N.d.T.]”.
Questi atti spontanei sarebbero significativi, secondo Walter Benjamin, del rifiuto di un tempo continuo (del capitale), teso verso il futuro, come quello delle macchine motrici, per re-instaurare il tempo della festa, inteso come quello del calendario rivoluzionario, che non misura il tempo che passa, ma inaugura invece il tempo della commemorazione e del ricominciare, un tempo saturo “di adesso” in cui ciascuno potrebbe incontrare un’immagine del passato.
In particolare, secondo Benjamin, si tratta di definire il concetto di presente, non come un passaggio tra passato e futuro, ma come un arresto, un blocco del tempo che consente allo storico di scrivere la Storia, cioè di dipingere l’esperienza unica dell’incontro con il passato, e qui, per esempio, di descrivere l’esperienza unica, fatta dal nostro uditorio, dell’incontro con un’immagine rivoluzionaria ricreata da Elisabetta Benassi.
In quest’ottica, si può dire che Elisabetta Benassi, con la sua carabina Winchester, ha sospeso il tempo in modo da creare le condizioni della comparsa di un’immagine del passato o, in senso più ampio, di un incontro con quest’ultimo. Questo gesto forte è legato sia alle preoccupazioni politiche dell’artista — quelle che risiedono, per esempio, nella sua volontà di arrestare il ritmo accelerato della produzione e dell’informazione — sia a un regime temporale specifico del suo lavoro, quasi un metodo. Questa temporalità, un “adesso” forse, si ritrova, in effetti, in numerose opere. Quando inchioda al muro il libro Passato e presente (1951) di Antonio Gramsci — membro fondatore del Partito Comunista Italiano, imprigionato sotto il regime di Mussolini; quando gioca a calcio o va in moto con il sosia di Pier Paolo Pasolini o, ancora, quando guida l’Alfa Romeo del cineasta, Benassi fa riemergere immagini celate nel passato, le inchioda in questo presente e, in altre parole, le attualizza.
Andando contro il tempo meccanizzato, Walter Benjamin estraeva la nozione di “fatto postumo” o “retroattivo”, spiegando che mai “nessuna realtà di fatto, è di primo acchito, e con cognizione di causa, un fatto già storico. Essa lo è diventata solo a titolo postumo, grazie a eventi che possono essere separati da essa da alcuni millenni”. A questo proposito è interessante prendere in esame il funzionamento di Memorie di un cieco (2010).
Memorie di un cieco è un lettore di microfilm posto su una scrivania scrittoio Olivetti risalente al 1963, che, nella penombra di una stanza vuota, fa scorrere una parte della collezione dei 70.000 dorsi di fotografie tratte dagli archivi della stampa internazionale che Elisabetta Benassi sta attualmente mettendo insieme — un complesso di documenti che approcciano in maniera frammentaria e indiretta la storia del XX secolo e delle sue ideologie. Se è vero che gli eventi, i siti e le figure paradigmatiche del secolo scorso affiancano talvolta fatti di portata minore o personalità cadute nel dimenticatoio, i documenti raccolti dall’artista sono comunque significativi di una visione problematica ed equivoca degli avvenimenti cui si riferiscono. Innanzitutto perché Elisabetta Benassi ci mostra il “rovescio” delle fotografie scelte, cioè le descrizioni, le legenda, gli accrediti, i tamponi e le numerose note che classificano e informano l’immagine, piuttosto che l’immagine stessa, e quindi l’osservazione e la lettura del dorso della fotografia ci spingono a compiere uno sforzo di ricostruzione dell’immagine mancante. Ma anche perché questo lettore di microfilm, questo apparecchio utilizzato un tempo nelle biblioteche e nei fondi archivistici per consentire di accedere ai documenti fotografati, è una macchina modificata. La macchina permette di leggere i dorsi di queste immagini facendo andare avanti e indietro in modo aleatorio la bobina del microfilm e, di conseguenza, andando avanti e indietro in modo aleatorio nel tempo. Memorie di un cieco è una macchina del tempo che gira da sola. Un automa autonomo. Una macchina del tempo, una macchina sola, che funziona come la memoria di un cieco che tenti di ricordarsi del passato facendo ritornare delle immagini, o piuttosto degli indici di immagini, senza alcuna cronologia. Una macchina per rammentare. Non è una macchina per risalire il tempo, operazione che consisterebbe nel riavvolgere il filo della rappresentazione di un passato lineare. No, si tratta di una macchina retroilluminata che fa incontrare in questo bizzarro presente — questo presente sospeso, quello che è stato definito l’“adesso” instaurato dall’artista — che fa incontrare dunque in questo bizzarro presente delle immagini di eventi lontani, illuminati quindi retroattivamente da un senso nuovo, da un senso storico.
Ecco come una macchina può far sorgere delle immagini. Facendo spingersi tra loro delle registrazioni di immagini, delle immagini di immagini, cioè delle immagini “che ritornano”, ecco come, insomma, una macchina può far sorgere degli spettri. Memorie di un cieco è quindi, allo stesso tempo: una macchina del tempo, una macchina sola e un generatore di spettri.
E se l’archivio ritorna, ovvero sopravvive quando viene registrato e viene rimesso in circolazione, Elisabetta Benassi gli conferisce, attraverso vari dispositivi di riproduzione e di presentazione, una nuova materialità, quasi una certa pesantezza. Parimenti, il dorso di una fotografia in cui si menziona la struttura posta a protezione di Angela Davis durante il suo processo dà vita a un’installazione di grande portata intitolata The Bullet-Proof Angela Davis (2011). Nuova interpretazione di un’immagine, questa installazione è composta da una struttura in Plexiglas e acciaio, che evoca formalmente la scultura minimalista, ma riproduce in realtà la gabbia antiproiettile che proteggeva la filosofa americana Angela Davis, militante marxista, femminista, anti-razzista, allora vicina alle Black Panthers, durante il discorso da lei pronunciato il 30 giugno 1972 al Madison Square Garden di New York, pochi giorni dopo l’inizio del suo processo, al termine del quale sarà dichiarata innocente. All’interno di questa struttura, un registratore a nastro magnetico riproduce in loop EinGespenstgehtum in der Welt (1971), pezzo scritto dal compositore italiano di musica contemporanea Luigi Nono e dedicato ad Angela Davis. La voce che apre quest’opera recita “Uno spettro si aggira per l’Europa”, citando il Manifesto del Partito Comunista (1848) di Karl Marx e Friedrich Engels.
Se la nozione di spettro viene affrontata qui in modo esplicito, essa attraversa comunque tutta l’opera di Elisabetta Benassi, intessuta com’è da un’orda di fantasmi di cui essa organizza gli incontri impossibili. Derrida affermava che bisognava nutrire del rispetto (respect, in francese) per il suo anagramma, lo spettro (spectre), il che equivale a dire che piuttosto che condannare gli spettri, come faceva Marx, sarebbe meglio farli ritornare e lasciarli parlare con le loro molteplici voci. Allo stesso modo, si può ipotizzare che Elisabetta Benassi, predisponendo un regime temporale propizio alla loro apparizione, tratti con grande rispetto i suoi spettri, quelli morti o vivi di Angela Davis, di Pier Paolo Pasolini, di Albert Einstein, del gorilla Bushman, di Mario Merz, di operai senza volti, di Paul Panda Farnana M’Fumu…, altrettanti fantasmi di guerre, del femminismo, del cinema, dell’arte, del passato coloniale, dei fascismi, di rivoluzioni, dell’imperialismo, o di crisi ideologiche le cui voci minoritarie, emancipate, oppresse o opprimenti ridanno la parola (a mo’ di ventriloquo) al mostro Europa.