“Mi piacciono i titoli che fanno sognare”. Niente è più appropriato di questa frase rilasciata da Caroline Bourgeois in un’intervista a Elisabeth Lebovici per introdurre la nuova programmazione della grande impresa espositiva veneziana di François Pinault, varata dalla neo-direzione di Martin Bethenod e dalla curatela della stessa Bourgeois, nuova di incarico pure lei. I titoli scelti per entrambi le sedi della Pinault Foundation sembrano suggerire un’unica strategia di politica culturale: sono il segno inequivocabile di una scelta precisa. Prendiamo “Elogio del dubbio”, pensato per la mostra nei bellissimi spazi di Punta della Dogana. Questo titolo, assieme a “Il mondo vi appartiene” per l’esposizione di Palazzo Grassi, non può non saltare agli occhi. Da dove vengono tanta incertezza e tanta promessa di accessibilità, tanta richiesta di partecipazione? A chi sono diretti? Le industrie creative contemporanee non vogliono prosciugare tali “sogni” ma, al contrario, li incoraggiano. Così, visto che il primo appuntamento a Punta della Dogana aveva richiamato più di 500 mila visitatori, attestando “Mapping the Studio” al secondo posto tra le mostre italiane più visitate dello scorso anno, sicuramente è il pubblico stesso il destinatario di tali messaggi.
All’ingresso di “Elogio del dubbio”, ancora prima di varcare la soglia del museo, il visitatore è sovrastato dalla scultura Vater Staat di Thomas Schütte, una fusione in bronzo di 700 chili, alta circa 4 metri. E Vater Staat non è che la prima di un lungo elenco di opere che richiamano la nostra attenzione per la scala eccessiva delle dimensioni e per le proporzioni ingenti. Altro elemento omogeneizzante dell’esposizione è il carattere statuario della maggior parte delle opere, dove per “statua” continuiamo a intendere, in senso classico, rappresentazioni umane e animali. Così dopo gli Efficiency Men di Schütte abbiamo le figure femminili supine di Paul McCarthy, le nove sculture a terra di Maurizio Cattelan, la “Gioconda” di Subodh Gupta, i gessi di Thomas Houseago, il Boy with Frog di Charles Ray, gli animali di Adel Abdessemed, il set (straordinario) di Edward Kienholz, ecc. Addirittura le teste-fontana di Bruce Nauman finiscono per consegnarsi, nonostante tutta la differenza, a questo insieme coeso. E non basta a sfaldare la coerenza dell’insieme un’opera come quella di Marcel Broodthaers o di Sturtevant. Non si tratta di valutare la qualità, a volte indubbia, delle opere. Quello che risulta problematico è qui il carattere della selezione, il comune denominatore che istituisce una simile piattaforma, il fatto che con essa si voglia dettare una tendenza. Da un lato gli scritti degli artisti in catalogo si richiamano — insistentemente e senza motivo — a un perduto Rinascimento. La stessa nuova commissione a Julie Mehretu rimanda alle opere di Guardi e Carpaccio. Dall’altro lato, l’idea di ceroplastica è ancora un rimando rinascimentale. Non è che si sta cercando di definire un nuovo monumentalismo contemporaneo? Dopo che tutti i monumenti politici sono stati giustamente abbattuti, non c’è qui, forse, l’idea di monumentalizzare un nuovo mecenatismo economico? Non è che questa statuaria senza tempo stia provando a catturare la volatilità dei flussi finanziari del mercato? “Elogio del dubbio” un tempo si sarebbe definito come un dispositivo di formazione dell’opinione pubblica: a prospettiva antipopolare ma il cui destinatario non è che il popolo.