Marinella Paderni: Il caso e la necessità, il fortuito e il transitorio, l’attimo e l’eterno ritorno sono realtà che tocchi da molto vicino. Quando guardo i tuoi lavori penso a quel “chiaroscuro delle cose” di cui parla il logico Bart Kosko nel suo “fuzzy-pensiero”. In che modo il tuo lavoro mette in crisi ogni logica deterministica di una realtà conoscibile tramite la sua piena visibilità?
Emanuele Becheri: Forse all’origine della formazione dell’immagine c’è una certa indifferenza nel pensarla se non come abbandono, perdita, rilascio, che svincola la propria inscrizione da qualsiasi progettualità deterministica. Probabilmente le opere nascono proprio da una certa mancanza di attitudine, terrain vague di un futuro anteriore, anacronistico, in cui il lavoro sarà al riparo da qualsiasi assunto filologico e cronologico.
MP: Vorrei parlare con te dei concetti di trasparenza e di sottrazione dello sguardo. Jean Baudrillard pensava che la nostra epoca fosse dominata dalla dittatura dello “schermo” e da una falsa trasparenza della realtà imposta dagli stessi schermi. Tra il mostrare tutto o rappresentare il nulla, lui preferiva “giocare sul fascino, sui segreti della trasparenza […] opporre il gioco del visibile e dell’invisibile a ciò che deve essere assolutamente visibile”. Nel tuo lavoro trovo continui giochi di “svelamento”. Che valore assumono, in questo senso, la cecità nella serie “Rilasci” (2006), o il tuo occultamento dietro il “di-segno” delle chiocciole nelle grandi carte nere di Senza Titolo (Shining) (2007)?
EB: I “Rilasci” si rivelano anche adesso, mentre parliamo; stanno lavorando grazie al loro dispositivo verticale e il loro interesse consiste in primo luogo in questo smarcarsi dallo sguardo, non solo dell’autore, ma di tutti quelli che non riusciranno mai a captare direttamente il loro inesausto assoggettarsi alla gravità, nel tempo senza tempo del proprio infinito spossessamento. I “Rilasci”, più che lavori, sono dispositivi atti a rivelare ciò che la rivelazione distrugge.
MP: Non credi che oggi l’autonomia del visibile e della sua trasparenza non sia più da ricercare solo nello sguardo ma in altre modalità? Nel suono, per esempio. “Vedere” il suono di un’immagine era al centro della tua installazione Après coup (2009), in cui tre giradischi automatici emettevano i suoni di tre accendini che nella videoinstallazione Time Out of Joint (2008) erano visibili in proiezione.
EB: Si tratta di due progetti legati indissolubilmente. Nelle tre proiezioni video di Time Out of Joint i soggetti erano alcuni accendini bruciati dalla loro stessa fiamma. Il fuoco si sviluppava fino al loro spegnimento, e questo avveniva in maniera diversa e imprevedibile per ognuno. I video erano in loop e quindi la distruzione si protraeva all’infinito. Il suono prodotto dagli accendini era diffuso da tre speaker diversi, dando vita a una sinfonia involontaria. In Après coup la stessa sinfonia involontaria è stata incisa su tre LP in vinile che ruotavano su altrettanti giradischi automatici, nello stesso ordine spaziale delle proiezioni del progetto precedente. Stavolta però, l’immagine video era sottratta, lasciata all’immaginazione dei presenti. Per loro stessa costituzione i vinili sono soggetti ad usura, a una progressiva distruzione che genera un suono totalmente sovrapponibile alla resa visiva del disfacimento degli accendini, come un fruscio che parassita i suoni incisi. Après coup è dunque un lavoro che ritorna come eco della traccia, come fantasma del video. In definitiva, è l’accidente dell’accidente.
MP: La tua sfida allo sguardo ha preso una strada apparentemente paradossale nell’uso recente del linguaggio video. Nel nuovo video Glas (2009) — che presenti al Museo MAN di Nuoro — come mai hai scelto di filmare il volo delle rondini?
EB: Tutti i miei lavori, dal 2004 in poi, approcciano il tema dello sguardo in relazione al tempo, ma ciò non è altro che un’implacabile deriva, una sorta di ossessione indagata nelle opere quasi “a prescindere” dalle mie intenzioni. Se penso al nuovo video, in effetti, quel giorno non avrei mai pensato di filmare qualcosa del genere, mi ci sono semplicemente trovato in mezzo. Ho lasciato la telecamera a terra, puntata verso il cielo, dove a distanze diverse volteggiavano delle rondini. Più tardi, a casa, ho rivisto il video: mostrava un cielo monocromo grigio in cui casualmente l’immagine delle rondini era catturata alla velocità di un fotogramma al secondo. Un amico ha trovato questi passaggi così lapidari da suggerirmi di intitolare il lavoro Glas, omonimo titolo di un libro di Jacques Derrida. In francese questo termine indica il rintocco funebre delle campane a morto. Trovo sia appropriato per tautologizzare questo passaggio a vuoto del segno, che rintocca proprio per “certificare” l’inevitabile ritardo che lo contraddistingue