Fin dove la presenza dell’artista può defilarsi all’interno dell’opera? Come possono essere ridefiniti i confini tra personalità agente e oggettualità recipiente? Se già Baudelaire aveva precocemente diagnosticato l’alternativa, nella vita e nell’arte, tra concentrazione e vaporizzazione dell’Io, la ricerca di Emanuele Becheri si è fin dall’inizio orientata verso l’azzeramento radicale dell’ego dell’artista e la messa in dubbio dell’idea di progetto: “Ogni lavoro – egli dice – ha una sua specificità, una sua autoreferenzialità, ma allo stesso tempo si slega dai processi che l’hanno costituito, producendo una traccia che va in ogni senso”. Per analizzare il suo lavoro è necessario, appunto, metterci in cerca di tali tracce: compito non facile, perché queste tendono più a cancellarsi che a mostrarsi, a rivelarsi come residuo, polvere, esalazione, come rimasugli fossili, echi di uno spegnersi. All’inizio c’è un gesto, una volontà allo stato di potenziale minimo, una rottura della statica e del silenzio: lentus in umbra, l’artista innesca un congegno autocancellante, un’evasione dai dettami della soggettività. È dall’inizio del 2004, con la serie delle “Carte piegate”, che Becheri riflette sul problema della traccia. Carte sottili, piegate e marcate premendo la punta di un ago su fogli di carta carbone nell’oscurità: “Calco incalcolabile”, come dice Becheri, queste superfici mostravano tracciati insettiformi, testimoniavano la recessione larvale nella cecità indeterminata all’origine di qualsiasi opera. Se la piegatura e la gualcitura nei “Rilasci” (2006-2007) erano funzionali allo svelamento di un segno che, generato dall’oscurità e dal caso, diventava visibile in seguito all’impercettibile dispiegarsi della carta, nel Rilascio sonoro del 2007 l’unica contropartita dell’assenza era la cattura, attraverso l’utilizzo di microfoni a contatto, degli inudibili scricchiolii cartacei. Del foglio appallottolato e spiegazzato restavano i fruscii, minime terminazioni ai margini della sensibilità. Cercando di eludere anche la pur minima memoria di “disegno automatico” e qualsiasi contatto con l’inconscio, ecco che i lavori successivi prevedono la messa in funzione di una sorta di machine à dessiner tanto elementare quanto singolare, attraverso la quale raggiungere qualcosa come “lo sguardo cieco di una tattilità visiva”. Immettere una manciata di chiocciole al centro di un rettangolo di carta nera e lasciare che escano, irradiandosi alla cieca, incrociandosi o ignorandosi le une con le altre, riproduce il gesto divinatorio del lanciatore di astragali, dà il via a un’azione dalla quale la volontà dell’artista è bandita. L’autorialità è negata, non opera che come scintilla preliminare, small bang d’avvio, getto di dadi. In seguito a brancolamenti centrifughi, la carta intrisa dalle secrezioni delle chiocciole si sbalza e rileva, e di questo passaggio strascicato come un dripping radente e rallentato restano ramificazioni iridescenti, infime vestigia di forma. Nelle combustioni del 2008, come attraverso un oblò accecato, è l’intera superficie che si fa segno, il supporto-oggetto diventa (attraverso un gesto unico dell’artista, che si limita a intridere un tappeto di combustibile, lasciando che il fuoco compia fino in fondo il suo percorso) una ex cosa spogliata di ogni residuo di oggettualità. Questo darsi come resto si fa particolarmente pregnante nel caso del lapis carbonizzato (2008), che sembra pungere, anzi, puntare lo spazio: stilo scarnificato in una specie di “opera al nero”, la matita combusta e fessurata dal fuoco rivela in una fenditura il suo midollo di grafite messo a nudo, come un nervo scoperto e una nigredo interna.
Nell’ultima mostra, “Shuffling The Same Card”, che, come egli ci ricorda, costituisce la sua personale hantologie, Becheri fa cortocircuitare gli ultimi lavori con alcuni dei precedenti, evocando un ambito esteso dell’idea di traccia, ponendo le diverse opere come in uno stesso orizzonte di senso. Mescolando, paradossalmente, la stessa carta.