La creazione nasce dal Caos, come ricostituzione di un equilibrio certo, ordinato, leggibile. La non creazione riguarda invece la condizione in cui la materia si mantiene fedele al suo stato originale caotico, e la conoscenza a quello di processo mutevole, sempre in fieri, e che agevola e ammette la libera interpretazione della forma, quindi anche, al contempo, la sua controparte, l’assenza. Nella sua ultima opera, Finnegans Wake, James Joyce inventa un neologismo: caosmosi. Si tratta di una fusione tra il caos e la sua materializzazione, ovvero la traduzione in fatto consistente di un fatto impercettibile. È quanto ritorna poi in uno dei libri più significativi di Félix Guattari, dal titolo appunto Chaosmosis, in un digredire discorsivo che, paradossalmente, predica la non discorsività della conoscenza. La composizione disomogenea ma fluida: una serie di passaggi scorrevoli, di richiami all’attualità o a situazioni cliniche, prepara il momento del sorvolo concettuale. E a quel punto scatta la macchina neologistica guattariana: la tensione verso il concetto si inarca nelle parole deformandole, scomponendole, ricomponendole. Il Caos quindi permane come possibilità di evitare ogni qualificazione assiologica univoca. Ogni momento di cristallizzazione — un concetto, un percetto, un affetto, un enunciato — negozia con il Caos la propria consistenza. Caosmosi quindi è il principio che conduce al punto di contatto tra l’infinita apertura di possibilità, mentali, psichiche, estetiche e sociali, e la chiusura completa, totalitaria, la prospettiva in cui i percorsi esperienziali sono in qualche modo preformati dalla macchina enunciativa del potere. Questo principio ritorna spesso nel lavoro di Emilio Prini. Tra azione e inazione, tra il fare e l’astensione dal fare. È un principio che appartiene a ogni sistema caotico che, secondo l’epistemologia, ha alcune qualità minime: la sensibilità alle condizioni iniziali, ovvero capacità di trasformazione sulla base del contesto in cui si verifica; l’imprevedibilità. Sulla linea del confronto che sembra instaurarsi tra Caosmosi e la produzione estetica fatta dal Caos, si pone l’opera di Emilio Prini, senz’altro uno degli artisti che in modo più puntuale hanno, attraverso il proprio lavoro, interpretato quel processo di immedesimazione tra opera e artefice, teorizzato nella storica mostra di Harald Szeemann “When Attitudes Become Form” (tenutasi a Berna nel 1969 e a cui Prini partecipa non presentando alcuna opera). Ovvero l’idea di esporsi (ex-porsi, da ex ponere) come attività che appartiene tanto all’opera che all’artista, anzi contemporaneamente sia all’una che all’altro, partendo dall’idea che l’opera rappresenta in tutto e per tutto l’estensione del comportamento dell’artista, e che “il mondo dell’operatività artistica” possa ridursi “al modo dell’essere e dell’agire” (Celant, 1968). Trasformando il rapporto artista-opera in una relazione parificata, sostenuta da una parentela osmotica di origine, a tratti quasi biologica, Prini assume radicalmente l’attitudine come parte integrante dell’opera stessa: il comportamento è l’esperienza di vita che prende forma, è l’opera.
Sdrammatizzando, da un lato, il ruolo dell’artista e il suo presunto protagonismo nei confronti dell’opera d’arte e, dall’altro, rifiutando il fissarsi dell’opera in una deliberata forma, cosicché questa possa rinascere in ogni istante, nuova e libera, Prini si qualifica come empirista, nel senso storico del termine. Accostandosi, in particolare, al pensiero epicureo nei termini in cui questo giunge a individuare nell’esperienza l’identificazione della sensazione: tutte le idee sono frutto di sensazione, anzi, sono esse stesse sensazioni, cioè configurazioni materiali di atomi che si distaccano dai corpi fisici ed entrano nel nostro corpo attraverso i canali costituiti dagli organi dei sensi. Questa versione dell’empirismo, più tardi denominata sensismo, è stata spesso ripresa, anche se in forme meno rigidamente materialistiche, in epoche diverse, da Hume, Condillac, Mach e dai filosofi del Circolo di Vienna nella prima fase della loro attività filosofica, i quali posero come dato di partenza della conoscenza la sensazione, pur divergendo riguardo al modo in cui le sensazioni vengono successivamente riorganizzate in maniera più elaborata per dare luogo alle idee e alle teorie, di cui la conoscenza effettivamente consiste. L’indagine esperienziale è la prassi che determina il ribaltamento delle convenzioni, e che permette di stabilirne delle altre, di natura individuale, nate appunto dalla sensazione personale, che è quella in grado di aprire a una percezione diversificata della realtà inaugurando una nuova segnaletica, un linguaggio fatto di messaggi in codice, di presupposti inconfutabili e di affondi sarcastici, che portano alla ridefinizione dell’esistente, di una stanza, per esempio, come Perimetro d’aria (1967) e di un uomo, come essere misurabile in base alla lunghezza del proprio passo. Incuriosito dalla realtà più basica, standard, quella legata a stretto filo al quotidiano e alla fenomenologia di quegli eventi che si consumano nella sua dimensione interstiziale, e dall’irrealtà, quella affabulante propria della finzione teatrale, Prini partecipa a segnare, fin da principio e in modo decisivo, il percorso che l’Arte Povera opera sul territorio nazionale e internazionale, incarnandone la radice più profonda e misteriosa, quella che dialoga con il Teatro Povero di Jerzy Grotowski, da cui la corrente artistica preleva la sua denominazione e di cui mutua e interpreta i dettami fondamentali: ridurre ai minimi termini, impoverire i segni, ridurli ai loro archetipi. Modalità che in Prini trovano un’estremizzazione attraverso la maturazione di un drastico processo di sottrazione e di negazione del dato reale e che conduce, in alcuni casi, al presenzialismo “rapido”, in altri alla totale sparizione, all’assenza fisica dell’oggetto e dell’artista stesso dalla scena dell’arte. La condizione di metamorfosi dell’opera, la sua trasmigrazione dall’universo retinico a quello dell’invisibile, pone le basi per una potenzialità processuale illimitata che scompagina l’univocità di percezione del fruitore.
Prini, artista e persona [nel senso etimologico di maschera come sottolinea anche Celant, dal latino per-sona(m), strumento attraverso il quale risuona la voce dell’attore] scherma la propria presenza rimanendo dietro le quinte, negandosi e sottraendosi alla contemplazione, al pari della sua opera, e sceglie di partecipare a distanza al teatro dell’arte. “Confermo la mia partecipazione” recitava il telegramma inviato dall’artista al Kunstmuseum di Vienna come forma di partecipazione alla mostra “Processi di pensiero visualizzati” (1970) cui era stato invitato. Scelta che persegue e rafforza nell’arco della carriera. Dopo un primo intenso presenzialismo in mostre e rassegne internazionali negli anni caldi dell’Arte Povera, tra il 1967 e il 1971 (“Arte povera – Im Spazio”, 1967 alla Galleria La Bertesca di Genova, stessa sede della sua prima personale “Pesi, spinte, azioni” nel 1968; “Contempl’azione”, Torino 1967; “Teatro delle mostre”, Galleria La Tartaruga Roma, 1968; “Contemporanea”, a cura di Achille Bonito Oliva, “Parcheggio di Villa Borghese”, Roma 1971; “Prospekt 68”, Kunsthalle di Dusseldorf, 1968; “Op Losse Schroeven”, Stedelijk Museum, Amsterdam 1969; le già citate “When Attitudes Become Form”, Kunsthalle, Berna 1969 e “Processi di pensiero visualizzati”, Kunstmuseum, Lucerna 1970; “Conceptual Art Arte Povera Land Art”, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino 1970; “Information”, MoMA, New York 1970) la partecipazione di Prini alle mostre va via via diradandosi. Nel 1985 è presente alla mostra inaugurale del Castello di Rivoli “Ouverture”; esattamente dieci anni dopo è a Chiavari per “La natura e la visione” e nel 1996 a Strasburgo per l’antologica “Fermi in dogana” presso la Ancienne Douane. L’anno successivo è a Documenta X a Kassel, nel 2011 alla Tate Gallery di Londra per la mostra “Arte Povera”; poi nel 2003, per l’edizione di “Arte all’Arte” curata da Elio Grazioli e Hou Hanru, realizza a Montalcino l’opera 2003 variazione da Fermacarte 1968, rivisitazione, o meglio redivivificazione attraverso il riverbero della sua eco destrutturata, dell’opera del 1968. Una moltiplicazione di una moltiplicazione, il ridondare di una e più idee e il loro sovrapporsi, per sfuggire alla determinazione definitiva, di oggetto e di opera. Un processo che si ripete su un altro fronte, quello di un fenomeno oggettivamente impalpabile, inafferrabile: il suono.
Nel lavoro Fotocopiami la voce! realizzato insieme a Gianna Nannini presso Bunker Art a Milano nel 2009 in collaborazione con Ram radioartemobile, la voce della Nannini, frammentata e scomposta in diciassette suoni, viene moltiplicata, loopata, fotocopiata appunto, e ritrasmessa. La voce, come fenomeno del suono, diviene forma proprio attraverso la sua riproducibilità, quando si trasforma in dati. Quando diviene uno standard, proprio nel senso con cui Prini tende a riportare al minimo la condizione dell’arte. Un’azione ridotta ai minimi termini come quella protagonista della sua più recente mostra personale presso la Galleria Lorcan O’Neill a Roma. Le opere, e l’artista, si sottraggono alla consuetudine espositiva, snobbando le pareti e lasciando in loco, a terra, una traccia, sospesa tra il prima e il dopo, nel limbo che precede l’apertura di una mostra e che ne evidenzia il momento di chiusura. Una epifania che si nega alla vista attraverso la vistosità del gesto.