Emilio Prini (1943, Italia; vive a Roma) è una delle figure più complesse ed enigmatiche del suo tempo. È il Giorgione del XXI secolo. Come il grande artista veneto, la sua apparizione nel mondo dell’arte è stata folgorante. Debutta nel 1967 contribuendo alla nascita di uno dei movimenti artistici più influenti della seconda metà del novecento, l’Arte Povera. Germano Celant lo invita alla mostra “Arte povera–Im Spazio” alla Galleria La Bertesca, a Genova, senza che avesse mai realizzato una mostra prima. Fino al 1974 partecipa alle mostre più significative dell’epoca e della storia recente – “Op Losse Schroeven”, Stedelijk Museum, Amsterdam (1969); “When Attitudes Become Form”, Kunsthalle Bern (1969); “Konzeption/Conception”, Stadtisches Museum, Leverkusen (1969); “Information”, MoMA, New York (1970), “Contemporanea”, Villa Borghese, Roma (1973) – per poi ridurre al minimo l’attività espositiva. Pochi sono i documenti sulla sua opera. Non esiste una monografia, né un’intervista. Prini è un bene prezioso che sfugge. Un artista immenso che non si è mai adeguato ai codici del sistema dell’arte, facendo che essi si adeguassero a lui con una coerenza che non ha eguali. Prini è un vero guerriero del Tempo e della Storia.
Lavora senza disegno preparatorio come Caravaggio ma con la maniacalità di Poussin. Nulla è lasciato al caso. Il titolo, la didascalia, la font utilizzata, il posizionamento, l’architettura, la luce, i colori dell’ambiente in cui l’opera è collocata, la dimensione del foglio e il tipo di carta sulla quale è riprodotta nel catalogo. Ogni elemento ha un peso in quanto “c’è” e di conseguenza nulla può considerarsi ininfluente. Tutto contribuisce a creare un equilibrio.
Come la poesia, l’arte di Prini non si può spiegare. È inafferrabile. Ha prodotto poche idee e opere su cui ha continuato e continua tuttora ad intervenire, rielaborare, modificare, rimodellandole come una materia viva che non si è ancora seccata. Spesso lo fa con gesti minimi come aggiornare una data, cambiare un titolo, isolare un dettaglio di un’immagine, fotografare un’opera già realizzata o ricostruirla. Di conseguenza l’autorialità, l’originalità e l’unicità dell’opera sono messe in crisi – un modo di operare paragonabile a quello di un compositore intento a riscrivere incessantemente la medesima partitura con sottili variazioni sul tema, consapevole che la semplice ripetizione implica già di per sé un’idea di differenza. I lavori di Prini sono prove d’artista che aspirano a non trasformarsi mai in una forma compiuta dove, come sosteneva Piero Manzoni, l’unica dimensione è il tempo.
Tra il 1967 e il 1972 Prini è molto prolifico, anche se la maggioranza delle opere che concepisce le esporrà solo successivamente (a scomparsa parziale) mentre altre permarranno ipotesi su carta (a scomparsa totale).
Si tratta di note, istruzioni, formule, filastrocche (pubblicate in parte sulla rivista Pallone, sul libro Arte Povera e in fogli da bloc-notes nella personale alla Galleria La Bertesca nel 1968) in cui si manifestano questioni centrali come l’idea di vuoto, di durata, del rapporto spazio/immagine o di variabilità all’interno di un dato assoluto.
Alcuni appunti li imprime su fogli di piombo del peso del suo braccio. Frasi come: “Ho letto Alice nel paese delle meraviglie”; “Ho preparato una trappola per Alice”; “Ho percorso un lungo tratto di strada a piedi. Il mio corpo è stato fotografato in cinque punti fissi”; “Ho percorso una strada in salita”; “Ho dipinto irregolarmente una porzione di pavimento in anilina marrone. È stata consumata”; “Ho ottenuto un movimento”; “Un’altra ipotesi sul vuoto”. È una retrospettiva anticipata. Prini redige la propria Storia prima ancora di metterla in atto. Un corollario in cui sono condensate le opere di una vita. Un affascinante esperimento scientifico dove i vari elementi appaiono e scompaiono in stati diversi, si modificano, si cancellano, si ricreano in un flusso continuo. Un buon esempio è Fermacarte (1968): un gruppo di fotografie in bianco e nero impilate che ritraggono l’artista in “azioni quotidiane tipo” saltare, camminare, scendere le scale, con sopra del piombo a fungere da fermacarte. Il peso del piombo corrispondeva al suo peso. Un lavoro “concettuale” ma con una qualità pittorica che ricorda tanto Boccioni quanto Bacon. Dopo averla esposta alla Galleria La Bertesca, l’opera è stata riproposta con numerose varianti: con una diversa combinazione di foto; con la copertura totale o parziale della silhouette con il piombo; come fotografia della stessa. In un’altra annotazione Prini fa riferimento a “l’idea del calco come dimensione del non rappresentato” oltre a rilevare che “la misura del corpo è proporzionale alle misure/alle distanze/tutte.” In Passi (1967) riproduce i suoi “passi” con degli elementi geometrici di legno. Un’indagine sull’idea di volume e vuoto che ricorre in altre occasioni come quando firma con pennarello blu il pavimento bianco della stanza vuota di una galleria. Cita insieme Klein (il blu) e Manzoni (la firma) per superarli. Nel 2007 presenta a Roma una stanza vuota. Se Klein ha fatto il vuoto come opera, Prini lo mostra e accetta per quello che è. Il vuoto è una condizione fisica. Non è arte. È autentico e non lo si può copiare. Nel 1971, nel catalogo della mostra “Arte Povera” al Kunstverein di Monaco, lascia bianche le pagine a lui dedicate. A quattro anni di distanza Michael Asher compie l’operazione opposta, incollando due pagine bianche come contributo per la rivista Vision.
Sotto forma di comunicazione scritta compaiono anche progetti di possibili film da realizzare.
Nel catalogo Bolaffi ’70, in una delle due pagine a lui dedicate, è pubblicata un’immagine composta da due fotogrammi che riproducono la nuca di una persona con sopra inscritta la seguente frase: “Filma un’ora la nuca in primo piano e il mondo aperto seguendo la direzione del vento che cambia. Metti un sonoro sull’energia. Metti una didascalia fissa. Filma diverse nuche in diverse condizioni di vento.”
In un altro catalogo pubblica il progetto di un film TV di otto minuti con le seguenti indicazioni: “Filma un giorno di sole oscurato dal dito in primo piano e il vuoto aperto intorno seguendo il ruotare della terra / del sole / Fai movimenti generali di macchina / Filma 12 ore in quattro minuti di durata / Invisibilità della durata / Spessore di luce / Sorgente eclissata / Ombra sull’occhio dell’uomo.”
“Filma una notte la luna oscurata dal dito in primo piano e il vuoto aperto intorno seguendo il ruotare della terra / della luna / del sole / Fai movimenti di macchina / Filma 12 ore in quattro minuti di durata / Invisibilità della durata / Spessore di luce / Sorgente e riflettente eclissate / Ombra sull’occhio dell’uomo.” Prini non aggiunge, sottrae con un levare michelangiolesco. Opera con uno scarto ridotto, quasi invisibile, perfettamente calibrato, annientando quasi del tutto il “fare da artista”.
Nel 1970 il contributo alla mostra “Processi di pensiero visualizzati” al Kunstmuseum di Lucerna consiste in un telegramma che recita il seguente testo: “Confermo partecipazione mostra”.
Nello stesso anno su un numero speciale della rivista inglese Studio International, edito da Seth Siegelaub, l’artista pubblica uno scambio di telegrammi tra lui, Jean Christophe Ammann (curatore della mostra di Lucerna), Kynaston McShine (curatore della mostra “Information”) e Tucci Russo (all’epoca assistente della galleria Gian Enzo Sperone) presentato come parte di un copione di una commedia per quattro attori. I telegrammi inviati da Prini recitano nuovamente: “confermo partecipazione mostra”.
Rimane invece solo una prova di copertina per il progetto di un libro mai realizzato intitolato Confermazione Partecipazione Edizione, a cura di Germano Celant, che sarebbe dovuto essere pubblicato da Gian Enzo Sperone nel 1971.
Molte delle opere di Prini sfidano la percezione e suggeriscono una visione insieme analitica e immaginifica della realtà ottenendo il massimo risultato con il minimo sforzo.
Nel 1975, ad esempio, realizza uno straordinario, verosimigliante ritratto di Napoleone con una macchina da scrivere sfruttando esclusivamente il tasto della O e della virgola.
In precedenza aveva eseguito centinaia di disegni utilizzando, al posto della matita, una Olivetti 22 e fogli di un formato “standard” come l’A4. Piccoli capolavori che si manifestano come la risultante di una sensuale combinazione di formule matematiche, disegni architettonici, poesia visiva e partiture.
Un modo di operare e di essere che pone resistenza a metodi di storicizzazione e strumenti d’interpretazione predefiniti oltre a rendere difficile la mercificazione e circolazione della propria produzione nel mercato. Una ricerca sospesa tra le regole della fisica e la singolarità della visione, tra lo standard e il variabile dove il lavoro è concepito come una verifica empirica ed estetica sviluppata tramite la relazione di una serie di dati prelevati dal reale.
Nel Settembre del 2009, invitato a partecipare a un convegno internazionale su Documenta organizzato da Carolyn Christov Bakargiev al Castello di Rivoli, Prini manda in sua rappresentanza l’amica Anna Butticci con il compito di leggere integralmente tutti i dati contenuti nella lettera d’invito della curatrice (inclusa l’intestazione della lettera, mittente, destinatario, indirizzo, CAP, etc.). Una forma di tautologia ancora più radicale di quella adottata da Joseph Kosuth. Prini infatti spinge il gesto ad un limite tale da renderne problematica una definizione in quanto opera, performance, conferenza o semplice lettura. Se Kosuth riflette sulla ridefinizione dell’oggetto artistico, Prini ridefinisce il ruolo dell’arte e dell’artista stesso in una chiave quasi alchemica.
Anni fa ha dichiarato: “Non ho programmi, vado a tentoni, non vedo traccia di nascita dell’Arte (né della tragedia) perché la C. S. non è il frutto del puro lavoro umano (perché non ho fatto io la sedia il tavolo il foglio la penna con la quale scrivo) non creo, se è possibile”. Non sorprende quindi la fascinazione per il concetto di “standard”.
Standard (1967) è una stanga di alluminio profilato di 6,5 metri da collocarsi in un ambiente variabile la cui conformazione dipende dallo spazio nel quale è inserita. Nel 1967 è collocata nella Galleria La Bertesca solo per essere fotografata; nel 1973 viene installata alla Galleria Toselli. Uno strumento di misura convenzionale che contraddice sé stessa poiché a seconda dello spazio si modifica.
L’attitudine dell’artista a considerare ogni opera “aperta” è riscontrabile in ogni esposizione o catalogo a cui ha partecipato, incluse le più recenti. Nella mostra “Arte Povera 2011” curata da Germano Celant in diverse istituzioni italiane, Prini è uno dei pochi, se non l’unico del gruppo dei poveristi, a presentarsi con un intervento inedito. Sia al Castello di Rivoli (TO) che al MAMbo di Bologna, espone il catalogo della mostra stessa disposto sul pavimento e fermo sulle pagine che lo riguardano, invitando il pubblico a sfogliarlo e a “consumarlo”. Il titolo è Arte Povera 2011, Electa, Milano 2011, pp.544-557. Anche in questo caso è una variante di un progetto passato proposto al curatore Rolf Wedewer per la mostra “Konzeption/ Conception” nel 1969 in una lettera dove aveva scritto: “per la mostra aprite il catalogo alle pagine del progetto / mettetelo su una base di vetro trasparente ad altezza di lettura e in dimensione del catalogo / lasciate che venga sfogliato in tutta l’estensione”.
Se a consumarsi qui è un libro, in altre occasioni sono dispositivi tecnologici come una macchina fotografica (Magnete, 1968) e un registratore audio (STANDARD, 1969). L’uso continuato degli strumenti li spinge alla autodistruzione. La ripetizione meccanica di ogni gesto (compreso quello artistico), immagine, parola, oggetto, conduce alla sparizione, all’annullamento. La logica del fare produce la propria cancellazione.
In un presente dominato dall’iper produzione e consumo di immagini e oggetti, la posizione artistica e intellettuale di Prini, fondata sulla continua interrogazione sulla necessità del produrre, ha quindi un valore primario e imprescindibile.
Prini si continua a muovere cancellando sulla mappa i punti del suo passaggio, presentandosi come un clown beffardo nascosto nell’ombra dell’arte. La maschera dove celare un altro da sé, identico e alieno.
Lisa Ponti, figlia del grande Giò e compagna di avventura di tanti artisti, una volta a proposito di Emilio mi disse: “Quando lo conobbi ebbi soprattutto uno stupore per la sua assolutezza e la sua severità. Il punto è che lui ci deve essere e non essere allo stesso tempo. Un altro avrebbe detto “voglio essere in un punto visibile”; lui invece vuole essere in un punto quasi invisibile, però ‘esserci.”