Samuele Menin: I tuoi lavori sono strutture complesse piene di riferimenti soprattutto storici e letterari, da cosa nascono queste passioni?
Emily Verla Bovino: Da un senso d’infinitudine, quasi perverso in quanto travolgente. che cerco di affrontare criticamente ricollocandolo all’interno di limiti. Ironicamente, il tentativo di compensare questa “mancanza di corporalità” si trasforma in una compulsione quasi ossessiva verso l’immediato storicizzare del presente; ossia verso una pura presenza del presente che rallenta il continuo susseguirsi d’istanti per ristabilire un rapporto diretto con l’esperienza. Definisco questo inseguire una dimensione mentale capace di captare la pura presenza del presente, la “pittoricità”, e la vedo correlata a un discorso riguardante il rapporto fra l’oggetto, il linguaggio e la morte.
SM: Il linguaggio e la scrittura hanno un’importanza rilevante; soprattutto nei lavori più recenti inserisci testi scritti ad hoc, come dici tu immedesimandoti in un autore.
EVB: Si ritorna sempre a questo incolmabile senso di infinitudine e alla sua articolazione nell’io come il volere disperatamente non essere se stesso: è da qui che nasce la continua ricerca di nuovi personaggi sotto le spoglie in cui mi sento a mio agio scrivere. In fondo, credo che tutto ciò viene da una “perdita dell’esperienza” (ben articolata nelle poesie e racconti di Rilke, e nei saggi di Agamben) che ho ereditato dall’epoca storica in cui vivo. Molti affrontano questo problema con una retorica che si pregia di evitare la proposta di soluzioni nel nome di una continua ricerca di nuove domande, ma io sono più interessata a un discorso che non scampa alla responsabilità di una ricerca della verità assoluta pur riconoscendo l’impossibilità di raggiungerla: cerco, perciò, la conclusione sospesa di cui parlò John Dewey nella sua definizione del pensatore e lo pseudonimo è un mezzo per esplorare differenti visioni del mondo.
SM: Anche i titoli dei singoli lavori fanno parte di un lavoro più grande?
EVB: Tutti i miei lavori fanno parte di un’unica struttura di conoscenza: una sorta di filologia che vuole tracciare una notazione di quel linguaggio degli oggetti, tradotto in nome durante il processo del “nominare”. L’intenzione è quella di arrivare al momento teso appena prima del logos nel linguaggio umano. Chiamo questo complesso Multiformi Multianimi Animali Domestici dopo una frase di Eugenio Montale. Esito sempre nel prendere in prestito le parole di un’altro perché temo di poterne abusare, ma certe cose sono dicibili da alcuni e non da altri quindi ho preferito non cercare di ripetere la perfezione di questa costellazione verbale. Multiformi Multianimi Animali Domestici vorrebbe essere un microuniverso di corpi celesti che si orbitano in un trainante movimento ermetico ma saggio.
SM: Come ti autopresenteresti?
EVB: Un microchirottero, di notte alla caccia di talpi, idealmente nella cripta del romanesco San Pietro in Tuscania, e di giorno, dormiente, appeso dagli stucchi decadenti dell’abbandonata Santa Maria Vertecoeli a Napoli. Fondamentalmente, un pittore che cerca la parola e un poeta che cerca l’immagine.
SM: Le tue opere sembrano assumere la struttura di veri e propri archivi/musei.
EVB: Credo che si tratti troppo superficialmente la pratica dell’archivio, trasformatasi in maniera e decorativismo nell’arte contemporanea. Come tutti gli artisti, tengo vari tipi di archivi, collezionando e catalogando cose di differente natura da manoscritti a libri rari, da piccoli oggetti e immagini trovate ad appunti e foto prodotte da me. Più che alla costruzione di un museo o un archivio, preciserei che il mio lavoro segue la tradizione dello “studiolo” o della “kunstkammer”, come ne potremmo parlare, ad esempio, nel contesto della ricerca di Giordano Bruno, legato alla sapienza e al misticismo anziché a questioni di potere principesco, imperiale o statale: mirando non al monumentale ma alla semplicità e intimità di un ambiente domestico.
SM: Come ti trovi nel doppio ruolo di critica e artista?
EVB: Sono d’accordo con Gilbert del dialogo di Oscar Wilde, The Critic as Artist, quando dice “Non c’è arte senza consapevolezza del sé e la consapevolezza del sé e lo spirito critico sono un tutt’uno”. Credo che sia un esercizio importante per un artista curare l’umile capacità di uscire dai propri modi di vedere per entrare integralmente nel lavoro di un altro. Ma in questo sono sicuramente antiquata, dato che considero l’arte un atto d’amore, un salto verso la fede e l’interminabile ricerca della bellezza.