Angelo Trimarco: Il 1958 è stato in qualche modo per te un anno fatidico. L’anno dell’incontro con Manzoni, un sodalizio destinato a fare la storia.
Enrico Castellani: In verità è stato un incontro casuale, legato alle occasioni che offrono la vita e l’arte. Prima del ’58 ero andato a lavorare e a studiare architettura a Bruxelles. Per questo conoscevo abbastanza il lavoro degli artisti parigini e avevo informazioni sufficienti sulla ricerca che si svolgeva in Europa. Tornato in Italia, ho avvertito una condizione di chiusura, di stanca ripetizione di modelli surrealisti e informali, un attardarsi dunque su posizioni ormai invecchiate. Mi riferisco, in particolare, a quell’esperienza che Arcangeli ha chiamato “Naturalismo lombardo”. Queste insoddisfazioni e l’esigenza di sperimentare vie diverse, di percorrere itinerari meno scontati, credo che abbiano favorito, stimolato l’incontro fra me e Manzoni. Certo, non avevamo un progetto e un programma comune. Almeno all’inizio.
AT: Ma l’anno successivo, quando avete fondato a Milano Azimuth, le cose non stavano mutando, la rivista non muoveva da un’idea più precisa sulle cose da fire?
EC: Non c’è dubbio. Azimuth è già qualcosa di propositivo. All’insofferenza e al rifiuto si affianca sicuramente un’istanza positiva. Già il primo numero si presenta come una ricognizione di fatti e un censimento di riferimenti decisivi. Allora si guardava, oltre ai contributi degli artisti italiani, alla Germania. Al Gruppo Zero in maniera esplicita. I rapporti con il Gruppo Zero li manteneva Manzoni. Del loro lavoro ci interessava in modo particolare la pulizia della ricerca, la trasparenza del metodo, oltre naturalmente alla negazione di quelle pratiche dell’arte ispirate al Surrealismo, all’Esistenzialismo, all’Informale. Insomma, ci piacevano il rifiuto dell’individualismo, il disinteresse e l’abbandono delle istanze letterarie che allora dominavano la pittura. D’altra parte vorrei, però aggiungere che del Gruppo Zero non condividevamo la sua ansia di fare proselitismo e, prima ancora, la sua ideologia: quel rapporto, troppo diretto, con la tecnologia. Un’eredità che certamente discendeva dal Bauhaus. Su questo non c’è mai stato accordo, consenso, adesione.
AT: È stata importante per voi, per te e per Manzoni, la presenza di Fontana?
EC: La sua presenza è stata addirittura esemplare. Fontana era un innovatore, lo capivamo tutti. E non soltanto a Milano. Ci affascinava la sua concezione dello spazio. avvertivamo che le sue riflessioni aprivano su territori inediti, mai esplorati. A Manzoni non sfuggiva neanche la sua gestualità infatti spazio, luce, gestualità formano una trinità sulla quale a lungo abbiamo meditato, che ha accompagnato nella ricerca Manzoni e me.
AT: Potresti suggerirmi la differenza fra Manzoni e Castellani?
EC: Anche a distanza di tempo (di tanto tempo) direi che la differenza consista nel fatto che io sono sempre rimasto legato alla superficie e all’oggetto, alla loro analisi e definizione mentre Manzoni si è preoccupato di lavorare sui gesti e i comportamenti. Ci univa invece (ed è un tratto teorico fondamentale) la comune idea di concepire l’arte e la sua pratica: il progetto che l’arte fosse una continua riflessione sull’arte sugli strumenti e i modi del suo esercizio. Un’interrogazione senza fine sul suo stesso concetto. Per noi, per Manzoni come per me, l’arte si faceva con l’arte e non con l’ausilio, le suggestioni, gli apporti di altre discipline. Per questo penso che Manzoni sia una delle “fonti” dell’Arte Concettuale e per meglio dire, di un’ipotesi dell’arte come esperienza della trasparenza e del mentale.
AT: Credo che da questa ricostruzione non possa mancare un riferimento ad Agnetti. Critico, prima, del vostro lavoro, più tardi artista in proprio.
EC: Agnetti aveva una formazione letteraria, era poeta. Si è subito occupato di noi ed ha immediatamente compreso la nostra ricerca, il tipo di discorso che proponevamo. Agnetti, del resto, lo conoscevo già dai primi anni Cinquanta. Poi era andato in SudAmerica. Al suo ritorno, alla fine del decennio, i giochi erano ormai fatti. In fondo, credo che gli anni Sessanta, di cui oggi tanto si favoleggia, siano stati preparati sul finire dei Cinquanta. Semmai, poi, negli anni successivi, c’è stata una proliferazione di oggetti e manufatti, un surplus di merce.
AT: Mi sembra di capire che tu dai un giudizio fortemente limitativo, se non addirittura negativo, degli anni Sessanta.
EC: Avevo coniato uno slogan: “Alta congiuntura/ bassa manovalanza”. L’affermarsi di nuove proposte basate su una concezione rivoluzionaria del metodo di fare arte (con l’uso di tecniche inedite e di materiali inconsueti) aveva indotto e portato in superficie un vasto epigonismo, come ho già ricordato, che si manifestava con una massiccia produzione di manufatti attinenti più alla vetrinistica ed all’arredo scenico che ad una seria ricerca estetica. Queste considerazioni che tu mi solleciti sugli “anni Sessanta” necessitano però di ulteriori precisazioni. Mi sembra, anzitutto, che l’ansia di redigere dei bilanci decennali della storia dell’arte nasconda un intento consumistico (oggi tutto diventa in brevissimo tempo antiquariato) ed un’angoscia millenaristica. Io non credo che nel 2000 dobbiamo necessariamente presentare un consuntivo dei decenni di questo secolo. Penso invece che la critica dovrebbe essere più attenta ai movimenti ideali ed alle aree culturali che non sono scanditi dalla logica dei decenni ma che hanno percorsi commensurabili con la vita e le opere dei loro protagonisti.
AT: Oltre ad Agnelli chi erano gli altri critici che hanno seguito e compreso il vostro lavoro? Erano in molti?
EC: C’erano soprattutto Gillo Dorfles, Guido Ballo, Giulia Veronesi e Carlo Belloli. Loro, evidentemente con Villa. Subito dopo Argan. Ma devo aggiungere che tutta la critica più intelligente e innovativa si è occupata di Manzoni e della mia ricerca, di quel che rappresentava Azimuth. E con Argan c’era la critica romana più giovane. Si diceva allora che il mercato era a Milano e la critica a Roma. E mi pare che, tutto sommato, non fosse soltanto una battuta.
AT: Come spieghi la crisi di Azimuth (rivista e galleria)?
EC: La rivista e la galleria erano per noi strumenti e non verità definitive, luoghi d’esperienza. La crisi coincide, come tutte le crisi, con l’illanguidirsi della capacità e della forza propositive, del momento progettuale. Tuttavia di quest’avventura, almeno per me, rimarranno attivi la fiducia nella ragione come modello di chiarezza e il rifiuto dell’individualismo.
AT: Credo di capire che la tua proposta, come quella di Manzoni, di Azimuth, sia stata anche attraversata da una acuta tensione politica.
EC: L’intento politico non era, in verità, un’intenzione esplicita, ingenuamente aprioristica. Già da allora eravamo consapevoli che arte e politica sono discorsi diversi, che non possono essere confusi. Possono costituire, questo sì, le zone di una relazione incessante, dinamica. L’arte è politica solo in quanto è metafora del possibile. E il possibile, si sa, è una categoria che scuote le strutture rigide dell’esistente, l’organizzazione asfittica dei sistemi consolidati. Per noi, dunque, non si trattava di identificare l’arte con la politica o, peggio ancora, con la rivoluzione, ma di pensare l’arte come metafora del cambiamento. In questo senso, sono convinto che le ragioni che mi hanno mosso allora sono valide ancora adesso. Anche se troppe cose, me ne accorgo, sono profondamente cambiate.
AT: Ritieni che esista una vicinanza fra la situazione che si è creata alla fine degli anni Cinquanta e il nostro tempo, il Postmoderno, come siamo abituati a dire dopo Lyotard?
EC: Il Postmoderno (sai, i termini si sprecano) a me sembra proprio un aspetto dello stesso marasma che si riscontrava a quel tempo: mancanza di idee, sfiducia nella ragione, individualismo, oggi si dice anche edonismo. Ho l’impressione che si lavori soltanto in funzione della produzione, che si produca in vista del consumo, che viviamo sommersi da un mare sconfinato di merci.
AT: Questa diagnosi ricorda alcuni giudizi che hai espresso sugli anni Sessanta. È soltanto una mia impressione o c’è qualcosa di più?
EC: Si tratta, naturalmente, di un legame da non assolutizzare. Tuttavia credo che esista più di una relazione fra il nostro tempo e quegli anni. Relazioni tutte negative, si capisce. Voglio sottolineare, però, che per i giovani, per noi che cominciavamo la nostra avventura, allora era più agevole. Dopo tutto, c’erano più occasioni per farsi ascoltare, più possibilità, più attenzione. Magari i tempi erano più lunghi, più lenti. Oggi tutto è più rapido, ogni cosa si consuma velocemente: una velocità che dà la vertigine.
AT: Nella realtà artistica di oggi, se il mondo va così, come ti trovi e cosa provi? Il tuo lavoro è inattuale?
EC: Il lavoro di un artista, se è tale, è sempre inattuale. L’attualità segna, invece, la necessità e le urgenze del potere, il suo bisogno di dare ordine apparente al corso del tempo. L’artista opera immerso in una temporalità diversa da quella dell’attualità, perché agisce in funzione di una memoria collettiva in cui tutta la storia dell’arte (e non solo questa storia specifica) contribuisce alla sua cultura, al suo modo di essere, rendendo attiva la sua proposta, collegandola ad altre istanze e ad altri bisogni. Per un artista, così, molti aspetti dell’attualità sono anacronistici.
AT: C’è oggi un atteggiamento del tutto differente da quello della tua generazione verso l’avanguardia e il movimento moderno. Si è passati dall’idea dell’avanguardia come spazio di legittimazione dei discorsi dell’arte alla sua negazione, ad un radicale rifiuto. Qual è il tuo pensiero?
EC: Certo, la mia generazione era molto più prossima (e non solo in senso cronologico) ai grossi fenomeni che hanno caratterizzato la prima metà del nostro secolo. Rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta il taglio ora è netto. È perfino un luogo comune. Tuttavia, per quel che mi riguarda, continuo a pensare che le avanguardie sono destinate a conservare, al di là dei rifiuti e delle negazioni del momento, una funzione importante: fondamentale, perché ritengo che il mondo, la conoscenza, l’arte si muovono e vanno avanti per proposte estreme e mutamenti radicali, per cesure vertiginose. Da sempre è stata l’avanguardia ad aprire nei territori della storia nuove vie alla ricerca.
AT: L’arte degli anni Ottanta ti interessa?
EC: Faccio molta fatica a svolgere i fili che costituiscono la trama dell’arte di questi anni difficili. Però quando leggo le dichiarazioni degli artisti, anche se il loro lavoro risulta arduo, mi rendo conto di condividerne spesso le intenzioni. Capisco che portano verso le cose del mondo un’attenzione insospettata, soprattutto se, come dicevo, non ci si limita a guardare soltanto le loro opere. Le intenzioni di un artista sono importanti per comprendere le opere, per poter consapevolmente compiere quell’indispensabile periplo intorno al suo lavoro.
AT: Torniamo nuovamente alla tua più recente esperienza. Ecco la domanda: c’è continuità o rottura con la tua ricerca passata?
EC: Una continuità palese, non ci sono dubbi.
AT: Ma questa fedeltà, per così dire, da dove nasce? Dalla fede (che è sempre un po’ cieca) in un passato considerato essenziale, dalla difficoltà di trovare altri esiti, dalla consapevolezza che si tratterebbe soltanto di un banale aggiornamento?
EC: Io non credo in un passato inteso come sequenza casuale di avvenimenti o come esemplarità, credo nella storia che è coscienza critica del passato e condizione del presente. La mia ricerca nasce anche da questa consapevolezza e non possono quindi essere le “oscillazioni del gusto” o altre manifestazioni che non abbiano alla base lo stesso concetto che io mi sono fatto della storia e dell’arte a sviarmi dal mio progetto. Per quanto riguarda, poi, più immediatamente il mio lavoro, penso che fra un periodo e l’altro, tra un quadro e l’altro (ma non ho fatto solo quadri), esista la stessa continuità, ma anche la stessa diversificazione, che si riscontra nell’opera di altri artisti.
AT: Se ritorniamo un altro momento indietro, ai primi anni Sessanta, vorrei chiederti quale era il tuo atteggiamento verso i gruppi, verso quella loro esigenza di coniugare l’arte con la scienza.
EC: I gruppi hanno svolto, certamente, una funzione precisa, un ruolo importante. Anche se con intenzioni e modalità diverse. C’era anzitutto il desiderio di ritrovarsi con compagni di viaggio che avessero la stessa formazione, la stessa sensibilità. Pensa che il Gruppo T era costituito da artisti che provenivano, tutti, dall’Accademia di Brera. Stessi studi, stessi professori. Insomma, una cultura in comune. C’era, poi, l’esigenza (come ho già detto) di far conoscere il lavoro, di discuterlo, di polemizzare. I tempi erano allora favorevoli per questi scambi e questi intrecci. C’era, in fine, la voglia d’imporre una ricerca insolita, centrata appunto sulle scienze, attenta soprattutto alla psicologia della visione. In questa direzione si è mosso in particolare il Gruppo N di Padova. All’inizio, e proprio in polemica con il mito dell’artista creatore, dell’artista soggetto privilegiato, il Gruppo N non firmava il lavoro. Lo presentava senza nome, anonimo.
AT: E i rapporti con Lo Savio? Ancora adesso è imbarazzante parlare di questo artista singolare.
EC: Forse è vero. Infatti noi stranamente avevamo rapporti di amicizia più con suo fratello Festa, che lavorava in altre direzioni, che con lui. Il fatto è che Lo Savio ha sempre vissuto appartato, fuori da tutto, al margine. Ma, al di là dei legami personali, abbiamo apprezzato il suo discorso, condiviso la forza innovativa del suo lavoro. Soprattutto delle ultime cose, sicuramente un contributo di valore.
AT: La tua valutazione degli anni Sessanta è senza dubbio riduttiva, fortemente limitativa. E del decennio successivo, degli anni Settanta, cosa pensi?
EC: Per rimanere all’interno della logica dei decenni (che non condivido, lo ripeto) mi pare che gli anni Settanta, almeno nel campo dell’arte, abbiano rotto quel clima di eccessivo consumo (e quindi di relativa produzione) che ha caratterizzato la “storia” precedente. Gli anni Settanta sono, infatti, lo scenario dell’Arte Concettuale che, invece di produrre oggetti e merci, investiga sull’idea dell’arte, sugli strumenti del fare arte, riflette sul mentale. Gli anni Sessanta, bisognerà riconoscerlo, sono stati la volgarizzazione di quello che era venuto alla luce sul finire del decennio precedente. Non è senza ragione che nel ’60 il Gruppo Zero e il Nouveau Réalisme si sciolgono, periscono come annegati dalla loro stessa noia: l’epigonismo e la sovrabbondanza di oggetti messi in circolazione. Naturalmente la storia degli anni Settanta non è rettilinea né comoda: la complicano incroci e attraversamenti, persistenze che minacciano e impediscono al nuovo di essere incisivo.
AT: Un giudizio politico sugli anni Settanta?
EC: Vengono alla luce le contraddizioni e le lacerazioni degli anni passati in maniera drammatica, inconciliabile. Il fatto, poi, che queste contraddizioni siano state duramente represse, siano stati frustrati tutti i tentativi di cambiamento, non ha contribuito a risolvere i problemi e le questioni. Rimane, perciò, a mio avviso, un pericolo latente per la società civile: un rischio costituito dal riacutizzarsi delle ferite e delle contraddizioni tenute ora a freno dalla repressione.
AT: Gli strumenti del cambiamento (la lotta armata, prima di tutto) erano giusti e adeguati?
EC: Gli strumenti sono quelli di cui si dispone al momento, quando si avvia la lotta. Soltanto dopo è possibile dire se erano giusti o no, idonei o insufficienti, adeguati o precari. Oggi diciamo che non sono stati né sufficienti né adeguati, né idonei a produrre il cambiamento.
AT: In quel periodo hai affiancato all’esperienza artistica il lavoro politico. Trovi che ci potesse essere un rapporto più stretto fra l’arte e la politica?
EC: In verità non ho mai fatto lavoro politico. Piuttosto (e via via con crescente tensione) ho seguito quello che è accaduto dal ’68 in avanti. Io vedevo nel clima politico di dissenso e di critica alla società, di rifiuto dell’ordine esistente di negazione delle strutture di potere, le istanze e anzitutto il metodo che avevano guidato, animato vivificato la nostra ricerca. Era proprio quest’esigenza di radicalità critica e di “pulizia” che m’interessava, che mi spingeva a seguire e ad ascoltare le voci che questo movimento di giovani, di studenti, portava nelle università, nelle fabbriche, nel cuore delle stesse formazioni sociali marginali.
AT: La tua presenza all’Accademia dell’Aquila il ’69 e il ’70, è stata allora importante per leggere dal vivo i problemi che si affacciavano?
EC: Non c’è dubbio, anche se la mia esperienza di insegnante è stata troppo breve. All’Aquila eravamo andati, io ed altri colleghi, con grande entusiasmo, sperando di riuscire a stabilire con i giovani un rapporto diverso, meno ufficiale e filisteo. L’Accademia era stata aperta l’anno prima, il ’68. Noi speravamo di avviare una didattica nuova, di proporre un modo di fare scuola che non passasse soltanto per i libri e l’autorità dell’insegnante, ma che fosse un esercizio di sperimentazione assidua, un confronto di posizioni e di metodi. Poi (ben presto) mi sono accorto che la vischiosità burocratica, gli impedimenti più o meno pilotati. rendevano difficili se non impossibili i tentativi di rinnovamento. Anche nella giovanissima Accademia dell’Aquila si riproducevano gli stessi difetti presenti nelle strutture del sapere pubblico di più lunga tradizione.
AT: Se ritieni che a questo punto sia possibile far ritorno al presente, vorrei chiederti perché proprio in questi ultimi tempi hai ripreso a fare mostre con più impegno.
EC: Evidentemente avverto che c’è una rinnovata attenzione per le cose che faccio. Non bisogna meravigliarsi, del resto, se, dopo un periodo di silenzio, si riprende a riflettere su un artista, si ricomincia a interrogare il suo lavoro. Su questi cicli, se non è improprio usare quest’espressione, mi sembra che sia scandita la storia dell’arte. E forse non solo la storia dell’arte.
AT: Ma esporre, fare mostre, non significa alimentare questo totem che è il mercato?
EC: Il mercato c’è sempre stato. Magari si chiamava con un nome diverso. Certo è che ha leggi e regole che non sono quelli della cultura. Così, i valori creati dal mercato rispondono a dei bisogni che non sono né possono essere quelli della critica. Oggi, ma ormai da una decina d’anni, penso che le cose si siano radicalizzate, che il mercato abbia assunto una funzione egemone, di prevaricazione. È questo, in particolare, che io critico. Questo parossismo, l’isteria del mercato.
AT: Qual’è o quale vorresti che fosse la funzione della critica?
EC: La critica è un valore essenziale per la nostra società, necessario. Però anche la critica, come il mercato, è investita da un fatto che non ha precedenti: si assiste, voglio dire, al fenomeno sconcertante della critica che crea valori per il mercato anziché riflettere autonomamente sui valori di cui è portatrice l’arte, sulle condizioni che rendono possibile la pratica critica. Francamente dico che il ruolo del critico diventa sempre più prossimo a quello del manager.
AT: Mi sembra di capire che il tuo giudizio sulla funzione della critica sia decisamente negativo.
EC: Io non dò un giudizio negativo, prendo atto dei fatti nuovi e m’interrogo sul loro significato. Evidentemente ci devono essere delle ragioni se succede questo. D’altra parte non è un fatto peculiare dell’arte. È l’organizzazione della nostra società che porta questi squilibri. L’unico valore che, oggi, viene riconosciuto ed apprezzato è il denaro, che, spingendo verso un mercato sempre più capillare ed aggressivo, richiede prodotti ogni giorno più nuovi. Perciò il discorso dell’arte, della critica, del mercato, come ho già accennato, va inscritto all’interno delle più generali condizioni del nostro vivere, delle sue contraddizioni e dei suoi tagli profondi.
AT: Consideri ancora oggi l’arte un valore?
EC: Penso proprio di sì. Ritengo che l’arte conservi ancora una sua specifica funzione nella cultura. Magari l’arte potrà servire soltanto all’artista perché rifletta sulle sue strutture e si interroghi su questo particolare discorso. La sua funzione può anche essere limitata soltanto a questo. Ma per me anche questo, solo questo, è un valore.