Quello di Enrico David è uno sguardo multiforme e decentrato, dissettivo e disgregante, dove tutto significa incessantemente e più volte. Sempre alle prese con l’inoggettivabile, con una inevitabile pulsione che perennemente configura spazi di dissenso. Dalla pittura alla scultura, all’installazione, dal collage al disegno e alla gouache, sino alla stessa scrittura, tutta la pratica artistica di David ha manifestato fin dal principio una singolare tensione verso l’improbabile e l’inatteso. Un fare che talvolta prende in prestito tecniche artigianali quali il ricamo o il design d’interni, sfruttando il loro potenziale funzionale nel tentativo di organizzare e dotare di struttura la caotica natura del suo responso emotivo. Il suo eclettico vocabolario ha da sempre perseguito un continuo “dare forma all’instabilità dei sentimenti e alla loro impermanenza”, come più volte l’artista stesso ha dichiarato.
Assecondando una natura irrimediabilmente nomadica, ciò che ha inizio come un disegno o come un’immagine su carta trova poi altri punti d’arrivo proprio a conferma di questa sua perenne condizione di instabilità, dello statuto di persistente incompletezza come suo presupposto fisico e semantico. Le immagini si incrociano, ripassano per gli stessi luoghi, si avvicinano o si separano, ritornano anche a distanza di anni, ognuna apre una nuova prospettiva sull’altra.
Sin dagli esordi, quello di Enrico David è stato un continuo esplorare una possibile rappresentazione del corpo umano, un corpo depulsionalizzato e reificato proprio perché infinitamente segmentabile. Come scrive Jean-Luc Nancy: “I corpi sono anche la discontinuità dei posti di senso, dei momenti dell’organismo, degli elementi della materia. Un corpo è il luogo che apre, che distanzia, che spazia capo e coda: dando loro luogo per fare evento (godere, soffrire, pensare, nascere, morire, fare l’amore, ridere, starnutire, tremare, piangere, dimenticare…). Cora, Butterfly Woman o Dinnisblumen — le grandi tele ricamate dagli accattivanti e seducenti titoli per le quali David diventa noto alla fine degli anni Novanta — danno luogo a un numero di variazioni intensive e inseparabili. Seguono un ordine di prossimità nella misura in cui il ritorno dell’uno rilancia istantaneamente anche l’altro. Imprigionati da filo e ago in una permanente abulia emotiva, algidi e vulnerabili, i soggetti hanno volti cancellati da orchidee giganti e chiassose farfalle. In un movimento sinuoso e ofidico congelano un corpo impassibilmente enigmatico che trae dalle sue posture acrobatiche la forza dell’equilibrio. In seguito il lavoro si serve sempre più spesso di una forma di mutilazione e di segmentazione isterica che consuma ogni morfologia, vuoi perché la cancella, vuoi perché ne destabilizza i luoghi e le funzioni. Gli arazzi della serie “Evenly Suspended Attention”, fondendo un’ampia gamma di idiomi — dal Neoplasticismo di Mondrian, al Costruttivismo, al Formalismo Astratto —, denunciano precisamente questa forma di disseminazione del corpo. Tra organo e organo, tra frammento e frammento, fanno precipitare l’immagine nella realtà della propria esistenza e, allo stesso tempo, enunciano un corpo di linguaggio fatto a pezzi e ridotto a balbettio di senso. Qui la metafora incaricata è quella del verbo assente: frantumazioni, più spesso tracce senza resti. Quando il reale non è in grado di valere come tale, diventa necessario dargli un secondo senso per impedire la dissipazione di ogni senso e l’intrusione del non senso. Succede anche, in altri casi, che segmenti corporei ipertrofici si lascino leggere quali estensioni protesiche di un corpo assente, come in un noto racconto di Edgar Allan Poe. Loss of Breath narra infatti di un uomo che perde letteralmente la voce e cercandola affannosamente nella sua stanza d’albergo non trova che “a set of false teeth, two pairs of hips, an eye”. Ancor più spesso, l’assenza del corpo rivela un intorpidimento dei sensi. Sono lavori che esibiscono una cicatrice frutto dell’inquietudine, mostrano tagli e fessure e ne espongono artifici e contratture isteriche. Sublimi e temerari, compromessi e compromettenti, delineano una cartografia somatica che procede per frammenti isolati rivelando e affermando un “corpo” potenzialmente caotico, ibrido e soprattutto irriducibile. Chicken Man Gong (2005): né uomo, né pollo e forse nemmeno un vero e proprio “gong”, è in realtà una sorta di genio ibrido, non cancella la differenza di natura ma, come un acrobata dilaniato in una perpetua impresa, con il proprio atletismo installa appunto la differenza. Presentato alla Tate Gallery nell’ambito del programma “Art Now”, è una scultura pubblica che, fungendo anche da strumento rituale, continua a interrogarsi su questioni di autorialità e identità.
Nella serie di ventitré gouaches esposte all’ICA nella personale del 2007, invece, i confini del corpo si distorcono e si dilatano al di là dei toraci gonfi d’ansia a tal punto da divenire uno Shitty Tantrum. Titoli che suonano come enunciati verbali, volti grottescamente distorti, traumi e fratture: i gusci vuoti degli stereotipi formali e narrativi incorporano di volta in volta un’identità e una storia attraverso un’installazione del discorso proprio là dove il corpo manca. Nella stessa mostra viene presentata per la prima volta Ultra Paste, l’installazione che, riproducendo la stanza da letto progettata per l’artista dal padre nei primi anni Settanta, asseconda l’impianto di Vieille femme et enfant, un collage di Dora Maar del 1935. Nell’intima complicità di questo luogo,esposizione cruda del sé, memoria privata e memoria sconosciuta, quella di un’altra artista, si toccano reciprocamente. È nel contatto della loro effrazione, l’una attraverso l’altra e l’una nell’altra, che risiede l’effetto prodigioso di ciò che si deve dimenticare e perdere per poter restare diversamente.
Nel lavoro di Enrico David, memorie personali, declinazioni di occorrenze, allusioni letterarie e tragedie private, si innestano su un dizionario di riferimenti visivi che spazia dall’Art Deco alle arti applicate, dalle Wiener Werkstätte a Joseph Beuys, a molto altro ancora. In Boulbous Marauder (2008), per esempio, si fa ricorso alla Commedia dell’Arte e al variopinto costume di Arlecchino — simbolo dell’infinita deriva di ogni identità — per vestire delle sacche scrotali. Le loro sporgenti, afflosciate e informi forme, sublimate nella funzione di lanterne festive, sono soprattutto emblema di soffocamento matriarcale. “Mother is a figure of speech” diceva la Eve di Angela Carter, la madre è l’unica generatrice di forme. Come sottolinea Michail Bachtin, l’Arlecchino non è semplicemente un fool melanconico, ma al di là della sua maschera cosmetica aiuta a ritrovare la parola, ossia “aiuta il balbuziente a partorire” sconsacrando il linguaggio e trasponendolo sul piano materiale e corporeo del parto. Nella pratica di Enrico David l’uso della lingua, sia rappresentata che scritta, è inteso come strumento di interpretazione, di traduzione, di imitazione. Offre la possibilità di dare forma fisica ai bisogni di discontinuità, interruzione e abuso che sono fondanti nel suo lavoro.
A volte si tratta di un’origine svanita, altre volte accade che le parole si scontrino con le immagini e, prima ancora di diventare qualcosa di indissolubile, si distendano all’interno di una storia. Nel 2009 viene nominato per il Turner Prize per le due mostre personali “How Do You Love Dzzzzt By Mammy?” al Museum für Gegenwartskunst di Basilea e “Bulbous Marauder” al Seattle Art Museum. Secondo artista italiano dopo Giuseppe Penone nella storia del premio, allestisce su un palco nero un casting di personaggi in una sorta di scena pietrificata. Collage di memorie, uomini-uova che dondolano — ricordo di un giocattolo disegnato da Koloman Moser nel 1905 —, una bambola di pezza spossatamente oblunga, un frenetico tamburino, più semplicemente incubi abbandonati a se stessi. Absuction Cardigan, come si intitola l’installazione, è in realtà l’effetto di una disposizione strutturale che invita a leggere la stessa formula della leggibilità, ossia i criteri di inclusione ed esclusione, i confini del tutto arbitrari tra ciò che trova un destino e partecipa al gioco formale dell’ordine e ciò che, altrettanto arbitrariamente, ne resta escluso. Disseminare segni, sintomi, indizi, testimonianze eterogenee che nell’artificio rappresentativo allestiscono una sorta di teatro, inscenano la defogliazione, l’anatomia di una grammatica e così facendo promettono la transitività dello sguardo e dunque del discorso. Ancora una volta ritroviamo una sorta di installazione del linguaggio, proprio là dove il corpo manca dell’origine piena di un predicato di identità.
Il nucleo di lavori presentato in una recente personale a Berlino, servendosi di un virtuoso silenzio, continua a interrogarsi proprio sui limiti dell’identità e sulle frontiere tra lo stesso e l’altro. Superfici e volumi, membra, teste e code, danno corpo a “figure” prive di scelta, dall’essenza vacillante e che lo stesso David ha definito “non ancora pronte per venire al mondo”. Figure in divenire dove bellezza e vacuità si inseguono nella loro circoscritta fragilità; transitano nelle forme e si liberano di esse con un sol gesto e proprio in questo spasmo, tra lo svanire e il persistere, inchiodano radicalmente l’immagine alla sua realtà di apparenza. In alcuni casi, il sottile smembramento dei soggetti perde filo a filo la propria faticosa tessitura di espressioni per produrre astrazioni; in altri la caduta delle tinte e il conseguente stingimento delle superfici ne rapprende il respiro in modo concitato. Sono Figure attraverso cui l’artista ricompone una propria “fisiologia” della parola prima o dopo un qualsiasi tentativo di verbalizzazione, che meditano sulla lingua del figurale, sui suoi confini e sulla sua impotenza. È un fermare, un deviare la discesa del discorso strappando i segni al loro valore denotativo perché dicano proprio l’intermedio, l’incerto e l’innominabile. Un segreto costantemente differito che impedisce al soggetto di compiere il proprio destino unendosi a un predicato. Si potrebbe forse parlare di una sorta di recupero dell’isteria come sapere poetico del corpo, di un’incessante rivolta contro qualcosa che viene da un fuori o da un dentro esorbitante gettato al lato del possibile e del tollerabile. Vicinissimo e tuttavia inassimilabile.
Palazzetto Tito, Venezia. Una città in eterna perdita di sé, dove l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Brodskij diceva che in questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni. Posto che la bellezza sia una particolare distribuzione della luce, quella più congeniale alla retina, una lacrima è il modo con cui la
retina — come la lacrima stessa — ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza. Qui lo sguardo di Enrico David ha letteralmente arredato questo spazio del soggetto borghese depositandovi via via le metafore della sua leggibilità.
Rita Selvaggio: “Repertorio Ornamentale” è il titolo della tua recente personale a Venezia pensata appositamente per gli ambienti di Palazzetto Tito, dimora di carattere nobiliare, già antica e labirintica residenza di artisti veneziani. Tra questo intreccio di presenze e assenze, di distorsioni e sovrapposizioni, mi piacerebbe parlare con te di quello che il tuo lavoro ha messo in atto in questo determinato contesto.
Enrico David: La mostra era stata inizialmente pensata come seconda tappa della mia recente personale a Berlino. La natura dello spazio ha contribuito ad attivare certe attitudini implicite del mio lavoro e possibili evolusioni-de-evoluzioni di alcune opere. Da un lato la necessità di integrarli nella struttura fisica di Palazzetto Tito, dall’altro cercare di stabilire una corrispondenza con la sua natura storica di dimora, usando aspetti del vernacolo del design di interni e decoro tipicamente italiano, che comunque nel tempo ho spesso invocato. Questo ciclo di lavori ha come filo conduttore il linguaggio, nella sua veste di strumento di interpretazione, di traduzione, di imitazione prima che di comunicazione. E’ la mia prima mostra personale in Italia, mio paese di nascita, con opere eseguite durante un anno di lavoro in Svizzera, dopo ventitré anni di residenza a Londra. Ogni idioma, ogni pensiero che ho sviluppato sul mio lavoro è stato concepito primariamente in un linguaggio acquisito. Questa esperienza linguistica ha sicuramente contribuito a creare un parallelo nel carattere “instabile” e in un certo senso nomadico del mio processo creativo – sia nella sua manifestazione fisica che nei suoi motivi semantici.
RS: A proposito della tua mostra a Berlino da VW, si trattava di immagini ed enigmatiche rappresentazioni del corpo umano, spesso distorto e frammentato. Parvenze che evocavano un’inquietante condizione di evoluzione ed entropia, un’inerente goffaggine e inadeguatezza. Mi parleresti di come è avvenuto il loro ulteriore passaggio, o meglio in che cosa è consistita l’evoluzione cui accenni?
ED: Se è vero che instabilità e incertezza sono proprie del mettere in discussione il senso di appartenenza, parallelamente lo status di un quadro, di un disegno, di una scultura è nella mia esperienza spesso soggetto a una probabile revisione. Lavorare a Basilea durante quest’ultimo anno è senz’altro stato strumentale nella realizzazione dei lavori di Berlino/Venezia che menzioni, nel loro aspetto frammentato e di apparente imminente dissoluzione. Vivendo qui mi sono riappropriato di un senso di estraneità, e in tale regime il lavoro ha iniziato a esporre delle proprietà diverse, più di carattere fisiologico del linguaggio piuttosto che di teatralità di contenuti/narrativa. Ho riscoperto il piacere di vivere in un paese dove si parla una lingua a me sconosciuta, e quindi si ha la sensazione di agire inosservati. In un certo senso l’opportunità’ di mostrare in Italia ha istigato per alcune di quelle immagini un destino alternativo, secondo quel processo di interpretazione linguistica di cui parlavamo prima. Quindi l’immagine rappresentata in un dipinto è iniziata ad apparirmi come un tavolo consolle, un altro collage dipinto in tela è sembrato inevitabilmente destinato a diventare un tappeto con due pouffs. Il linguaggio del design offre una sorta di impalcatura esistenziale e formale, un lenimento a ciò che appare incompleto, inadeguato e disfunzionale, offrendogli una possibile integrazione nella vita di tutti i giorni. Ma è anche un modo per mettere in questione la definizione e le aspettative implicite della pittura, della scultura, e assoggettarle a una sorta di molestia.
RS: Memorie letterarie, Andrè Gide, Dora Maar, Koloman Moser e Oskar Schlemmer, o il ricordo dei tessuti di Sonya Delaunay nell’estro dei paralumi per ‘Bulbous Marauder’. C’è qualche eco anche nei lavori che abitano queste stanze?
ED: Il lavoro entra nel mondo come testimonianza, per dirmi chi sono, e per cambiarlo. A questo fine faccio appello a un repertorio visivo, letterario, umano, accumulato e in continua accumulazione, che nel tempo fermenta, si trasforma e mi trasforma. Che rispecchia un senso di armonia, o di aspirazione a essa. Ma anche di dissenso, di vuoto, di buio, di desiderio e unione. Di isteria e conflitto. Di ambivalenza. Un eco di voci risuona sempre nelle cose che si fanno, anche se si tratta solo di deboli dialoghi o di posizionamenti. Proprietà dei materiali, il maneggiare le cose, il lasciarci delle impronte con le mani sporche, il segno del tempo che deteriora. Tutto riflette una provenienza, anche sconosciuta o poco familiare. Familiarizzare con l’insidia.
RS: “Throat Plug”,” Undermeinof”……in molte occasioni i tuoi testi accompagnano il percorso espositivo. Quasi una macchina teatrale che riflette il magnetismo e l’ambigua indeterminazione dei tuoi titoli. C’è qualche forma di rapporto tra l’immagine e la parola? Esiste metaforicamente una relazione sintattica?
ED: Anche lo scrivere riveste un ruolo di impalcatura, di ortopedia di accompagnamento al linguaggio visivo. Un aiuto incostante, impreciso. che si piega su se stesso, mi informa sul che fare ed e’ informato da quello che e’ stato fatto. Pseudo narrativa a tratti, descrizione, riflessioni su pensieri avuti durante la produzione di una cosa. Coincidenze e ricordi di cose lette che sembrano essere state scritte per l’occasione, e celebrarle modellandole, espandendole, alterandole e a volte vederle cadere nell’ improprio. Vorrei poterlo pensare aperto quanto più possibile, esposto all’ infortunio e alla molestia tanto quanto una linea fatta a matita. Piegarlo. Il suono delle parole una vicina all’altra da forma al contenuto. Sovraccaricare di significato il lavoro è una strozzatura al suo potenziale flusso energetico, al suo “spiegarsi”. Ma ciò non toglie che la parola scritta possa costituire un tentativo a complementare tale flusso. In un certo senso lo scrivere è per il lavoro, non per noi.