“Intricato e fitto è il ricamo delle circostanze / Il punto della formica nell’erba / L’erba cucita alla terra… / A tale vista mi abbandona sempre la certezza / che ciò che è importante / sia più importante di ciò che non lo è” scriveva Wislawa Szymborska in Non occorre titolo.
Il ricamo delle circostanze, ricamare, tessere: quello della tessitura è un campo semantico che ha implicazioni culturali profonde e, in particolare, è tradizionalmente assimilato a quello dell’elaborazione poetica. Dapprima era stato proprio il ragno che, secondo Democrito, aveva insegnato all’umanità l’arte della tessitura e, secondo Plutarco, la tela che esso tesse, ammirevole per la finezza del filo, doveva essere un modello di perfezione per le stesse tessitrici. L’arte del tessere è un’attività lenta, paziente, ritmata, metodica e rigorosa, svolta con precisione e ritualità, come d’altro canto la scrittura. Intrecciare al telaio i fili della trama con quelli dell’ordito per fare una tela equivale, in senso figurato, al tessere un discorso, le trame di un tessuto come le trame di un racconto.
Sperduto nel suo stesso tessuto, il soggetto vi si disfa simile a un ragno che si dissolve da sé nelle secrezioni costruttive della sua tela. Testo in realtà vuol dire tessuto come aveva brillantemente intuito Roland Barthes[1]. Alle origini c’è Arianna che, con il filo del suo gomitolo, permette a Teseo di uscire dal labirinto. Lo sfondo metaforico, il significato fondamentale del suo mito, è proprio quello di dare ordine alle cose: uscire dal caos per entrare nella struttura.
Nella pratica di Enrico David il ricamo nasce come territorio di ripiego. “All’epoca”, racconta l’artista, “non potevo permettermi uno studio, lavoravo nel soggiorno di casa, casa che oltretutto dividevo con un amico. Ricamare, era una forma di resistenza, di sconfitta, un barricarsi dentro”. È da questa situazione che nascono i grandi quadri della fine degli anni Novanta, con i loro soggetti algidi e insolenti, inchiodati da filo e ago sulla tela. Oltretutto quello era il periodo in cui a Londra si andavano affermando delle pratiche iper-tecnicizzate, erano i tempi delle mega-produzioni e di Mike Smith Studio (MSS), un enorme hangar a sud di Londra che realizzava opere per molti YBA, una delle officine più creative al mondo per la produzione di arte contemporanea che offriva una varietà di prestazioni quasi senza pari. Mike Smith era un mago dell’acciaio, del vetro, delle resine, e il depositario di ogni loro segreto e possibilità.
L’ago e il filo per David erano dunque una forma di sopravvivenza ma anche di terapia. Tutte le volte che l’ago entra nella tela si ha l’impressione di riannodarsi a qualcosa, e il ricamo in quel momento diviene la forma di un linguaggio del ritorno, del radicamento.
Per David, il tessile inoltre è in qualche modo un linguaggio di famiglia. Figlio di una modellista che si dilettava a fare la sarta per hobby, fratello di una restauratrice tessile, l’idea del cucito nasce da una sorta d’isteria, irrazionale e imprevedibile.
Ed è proprio con la sorella che, durante una visita al Museo Etnologico di Berlino, nel quartiere di Dahlem vede esposto un tessuto che ricorda i “pezzotti” della Valtellina, una sorta di tappeti fatti con dei materiali di riciclaggio. In una forma estrema di recupero, la procedura di questi manufatti prevede che dopo l’aver montato su un telaio l’ordito, si inseriscano in trama scarti tessili che non avrebbero avuto altro utilizzo. È a seguito di questa occasione che in David nasce l’idea di proporre tale tecnica, dall’esigenza di valorizzare il tempo e il lavoro fisico, il fervore taciturno delle mani inestinguibile quanto un mormorio. Questo metodo di lavorazione tessile gli offre inoltre la possibilità di affrontare l’astrazione, un’area impraticabile per il suo lavoro, poteva essere un contenitore ideale per l’immagine astratta. Infatti, come sostiene lo stesso artista in un’intervista “I motivi degli arazzi sono abbastanza arbitrari, non nascondono nessuna forma di simbolismo ma hanno a che fare proprio con la banalità della composizione ed essenzialmente con un motivo decorativo”. Quel decoro che Robert Motherwell definiva “bizzarro, mediterraneo, sessuale”. L’arazzo è un’immagine sia visiva che tattile, si accende dentro una materialità bruta senza prospettiva ottica, e il tessere è un linguaggio che appartiene sia alla tradizione artigianale che, in una società dipendente dalla meccanizzazione e dal virtuale, a una forma di anacronismo. I primi risultati furono esposti in “Il Palazzo Enciclopedico”, alla Biennale di Venezia del 2013 curata da Massimiliano Gioni.
Il tessile è un tema che favorisce cronologie trasversali, sincroniche e simultanee, che si decifrano mediante rimandi reciproci. Un linguaggio che è parlato al di là della comunicazione diretta e della contiguità – ci sono infatti delle soluzioni tecniche che l’umanità ha praticato a prescindere. Qui il riferimento è a quelle che, con sguardo antropologico, vengono meglio definite come “invenzioni parallele collettive”, matrici di tutti i racconti possibili. Infatti nei tardi anni Venti, un risultato visivamente simile a quello dei pezzotti valtellinesi si ritrova nella produzione Hispellum, sviluppatasi nell’omonimo laboratorio d’arte fondato a Foligno da Ugo Scaramucci e Leandra Angelucci Cominazzini, quasi cento anni fa. Questo tipo di lavorazione venne ideata e depositata dagli autori il 28 maggio del 1930 presso il Ministero delle Corporazioni del Regno d’Italia e nella richiesta di brevetto presentata si parla di un nuovo genere di tessuto multiplo. Leandra, pittrice futurista onirica oltre che tessitrice, fu in grado di perseguire sia le sue aspirazioni artistiche ed essere inserita in importanti mostre – in particolare fu presente per ben quattro volte alla Biennale di Venezia (1936-1942) – che di gestire una tranquilla vita da signora di provincia. Tant’è che di futurista i suoi arazzi e dipinti spesso avevano solo i titoli, e piuttosto che rappresentare motori e macchine, preferivano l’esplorazione del mondo naturale e della realtà interiore.
Tecnicamente il fondo e l’immagine di un arazzo, come quella di un tappeto, si vanno costruendo contemporaneamente, senza improvvisazione possibile. Non a caso, con una concisione esemplare, Anni Albers aveva definito il tessere come il semplice intrecciare due fili di fibra ad angolo retto. L’elemento tappeto poi, come sosteneva Edgard Allan Poe nell’acuto e ironico saggio The Philosophy of Furniture (1840) è l’anima della casa, è esteriorità assoluta: è in base al tappeto che si dovrebbero decidere non solo i colori ma anche le forme di tutti gli oggetti che vi vengono posati. Untitled (2011) è un tappeto di lana fatto a mano la cui immagine esiste anche come dipinto delle stesse dimensioni, ora parte della collezione della Tate Gallery. Il lavoro era stato concepito e disegnato per fare parte dell’ambiente domestico di un palazzetto veneziano. Ma non solo, come racconta lo stesso David, è esso stesso un ambiente, un contesto, un luogo dove viene impersonata una metafora archetipica. Gli oggetti che lo compongono sono essi stessi gli strumenti di tale messa in scena – due pouf imbottiti, come si faceva un tempo, con crine di cavallo e rivestiti da un disegno serigrafato su stoffa, un tappeto di lana la cui trama replica una sorta di labirinto. Per inteso, tale ambientazione non è stata pensata per essere costretta in una narrativa statica, si tratta più che altro di percezioni e impressioni che hanno a che fare con la sfera emotiva, con quello che l’artista descrive “come il sentirsi sotto assedio”. Un senso di paura e pericolo, un qualcosa di primordiale e arcaico che è sopravvissuto a se stesso.
Alle origini c’è Arianna e il filo del suo gomitolo, ossia il perdersi e l’orientarsi; ora c’è la questione del confronto con l’ombra e la sua alterità. O meglio, dell’imparare a smarrirsi senza perdersi.