Il dipingere è da intendersi come pratica mimetica volta al piacere retinico o come esperienza intellettuale, perfettibile sintesi di idea e azione. In seno alla tradizionale contrapposizione modernista tra pittura figurativa e formulazioni di ordine aniconico, durante la seconda metà degli anni Settanta l’alterità fra rappresentazione naturalistica e speculazione parve manifestare un’insanabile frattura fra soggetto e concetto. Come in una rinnovata contesa tra disegno e colore, fra intelletto e sensazione, la pittura figurativa si collocava a un bivio: non doveva soggiacere al piacere di pennello e pasta cromatica da un lato, ma neppure ottundersi nell’aridità di una palette pressoché assente. In questa dicotomia, il recupero della realtà fenomenica, intesa come pratica esperienziale, e della Storia, con il suo portato di memoria, fungeva quale parte propedeutica a un’analisi per la rivalutazione funzionale dei generi, griglia conoscitiva necessaria per indagare quella pittura impropriamente ritenuta “accademica”, ora definibile “metapittura”. L’impiego della “figura”, infatti, riservava al medium pittorico una modalità di approccio cosciente, un codice di confronto serrato con la tradizione secolare, una riflessione mai gratuita. L’interesse nei confronti della figurazione presupponeva l’intento di esplorare in maniera diversa un aspetto dell’arte ritenuto conservatore, quasi reazionario, per renderlo radicale.
Nell’avvicinarsi all’esperienza pittorica di Enzo Cucchi, si coglie immediatamente l’intrusione di un’epoca in un’altra attraverso la proiezione di categorie dal passato e il crollo della distanza tra oggetti ed eventi remoti. In un procedere anacronistico è possibile rompere la dinamica chiusa della cronologia e accostare le immagini, senza ridurle a reperti di un corpus monumentale, a puri feticci o fonti documentali, ricollocando tempo e immagine all’interno, al centro della riflessione. Il cuore del ragionamento è il processo epistemologico sfalsato che coinvolge struttura e composizione e che può avvicinare le rappresentazioni dell’artista a una narrazione a-sintattica, basata più sulle affinità elettive che sulla consequenzialità logico-narrativa. È infatti il montaggio stesso a costituire il tutto e a porre l’immagine fuori dal tempo: una descrizione contraria alla mimesi pittorica. Quale rapporto tra la storia e il tempo ci impone d’altronde la rappresentazione visiva? Cucchi prende atto della posizione cruciale delle immagini, mentali o deificate che siano, intendendo la raffigurazione come concetto operativo e non come mero supporto iconografico. In realtà l’artista vuole continuamente esemplificare il suo intervento sulla tela secondo una duplice prospettiva: una critica della rappresentazione e una riflessione sul concetto di dilatazione del fattore spazio-temporale, di collasso transitorio, vale a dire una critica del racconto in quanto riflessione sul nostro bagaglio visivo desunto dalla storia dell’arte. L’autore attiva un recupero progressivo del passato sulla base di una struttura volta a ricostruire minuziosamente gli sviluppi di un flusso di coscienza che procedendo a ritroso si perde negli anfratti più reconditi della imagerie occidentale. La Storia procede infatti per scelte che s’intrecciano con una matrice continua che solo di tanto in tanto si smaglia scoprendo un errore, un agente che è contro lo spirito dei tempi. Motivi decorativi o colori puri scelti per la loro complessità emotiva fanno da sfondo a una dominante rappresentazione simbolica e sono legati, in questo continuo sviluppo, agli stessi segni che li caratterizzano. Ridefinire un mondo di rappresentazione per exempla è la cifra di questo operare; così facendo l’artista interviene sulle idealizzazioni orfane, solitarie, episodiche per connetterle sia al tempo in cui si sono manifestate, sia alla loro origine per esaurirne il potenziale eversivo: esse si spengono per auto-esaurimento e il demone se ne va liberando l’immagine.
Cucchi cerca di drammatizzare senza sosta il pensiero verso una forma di auraticità, per avanzare nel quadro opponendosi alle autolegittimazioni che in genere si accompagnano all’acquisizione di una techné. In questo modo l’operazione creativa è sempre un processo di perfettibilità dell’artista vicino a una forma di idolatria. Da ogni opera esige l’impossibile, un miracolo, o per dirla come Bataille, un’esperienza, cioè un’eccezionalità di esecutivo, degli atti e non delle stasi, dei rivelatori di stati estremi dati per silenti. Per l’autore l’immagine urgentemente necessaria è pertanto soprattutto una visione, più che un’opera d’arte materiale, un’icona per la quale è impossibile prescindere da punti di riferimento culturali e spirituali. Le figure sono emanazioni di una natura divinizzata secondo una logica simbolica, non surreale, che coinvolge il campo d’azione del sacro. L’artista sceglie pertanto campiture dilatate e segni brevi, focalizzando la figura in parti limitate della tela e avvalendosi di una poetica pittorica libera da vincoli, perciò capace di riportare alla luce quelle sensazioni ineffabili secondo una teoria del piacere indagata rispetto alla natura e ai moti emozionali dell’anima. Il pensiero di Leopardi è sottotraccia in Cucchi: lo guida verso l’esaltazione della natura e delle illusioni, conducendolo a una concezione sensistica nella quale primeggia il problema della felicità; le illusioni agiscono sull’uomo originandosi da una determinata condizione dettata dai sensi. È l’aspirazione al godimento a determinare ogni umana condotta, ma il piacere mai riesce a realizzarsi in assoluto, oscillando tra un continuo desiderio e l’accettazione di un soddisfacimento perennemente illusorio. Il desiderio è sempre infinito: all’uomo resta solo l’immaginazione per credere di porre fine alla sua sete di felicità. La conoscenza dell’infinito si sovrappone all’esercizio poetico, ponendosi oltre qualsiasi possibilità percettiva. La natura è il limite esterno, aggirato dalla forza cognitiva dell’artista che riesce a trasportarlo dove regnano gli incommensurabili spazi e le eterne profondità; la mente è ora aliena dall’umana concezione, affonda nelle immensità travolta dal fluire del tempo. Il pensiero conquista l’ineffabile, penetra nell’universalità del creato, culminando in un’ascesi prima fisica e poi intellettuale, per solcare un sentiero ideato sull’asse spazio-temporale. Oltrepassare la mera visione del circostante, dirigersi nel luogo governato dalla pura immaginazione è l’esperienza suprema cui il genere umano e lo stesso Poeta e Pittore aspirano accostandosi a quell’universo dei sensi sconosciuto al creato. Una questione dominante nella storia culturale marchigiana: il rapporto tra l’idea d’infinito come spazio e tempo assoluti e la nostra percezione pratica di tempo e spazio.
La meraviglia è espressione e metafora del senso numinoso per eccellenza; in fondo il meravigliarsi significa essere colpiti nell’animo da un miracolo, da un portento, da un qualcosa di straordinario, opponendo un rifiuto al materialismo del quotidiano. In Cucchi i mondi meravigliosi sono sempre saturi di sacralità e pertanto sono palesi “anti-mondi”. Il contrasto tra sacro e profano, che rende possibile individuare queste dimensioni diverse, manca completamente nei dipinti, e la tela si pone come pendant complementare alla vita di tutti i giorni. L’icona che il pittore coglie come manifestazione divina può concretarsi ovunque e all’improvviso: “Un segno si formalizza dentro l’esperienza per un attimo e l’immagine appare come un lampo inaspettato per poi sparire”, afferma Cucchi. “Il corpo dell’artista si presta a ciò come trasportatore-scaricatore”, dichiara scegliendo un’espressione che rimanda palesemente al passaggio di energia. Per catturare l’attimo feroce ed eccentrico in cui si manifesta il segno bisogna chiudere tutti i rapporti con l’esterno; l’artista marchigiano si dipinge così come eletto, eremita per amore dell’umanità, che ha la responsabilità di trasmettere nella sua arte il segno colto al volo. “La pittura esce da me come un’emanazione naturale e divina: le figure umane hanno i tratti somatici dei semplici di spirito, ai quali è dato di provare il senso di meraviglia senza incorrere immediatamente in osservazioni razionalizzanti”, ribadisce. Il collegamento sacro fra cielo e terra attraverso un ricco serbatoio di raffigurazioni arcaiche diventa la cifra elettiva dell’artista. La missione ultima consiste pertanto nel percepire i segni che, dopo la fine del linguaggio figurato universalmente valido dell’iconografia, possono diventare nuovi portatori del sacro. Per Cucchi il recupero della simbologia tradizionale dal patrimonio comune appare così del tutto legittimo: il nuovo linguaggio che ne consegue è dunque puramente soggettivo e non ha la pretesa di voler fondare un nuovo canone paradigmatico.