In un’intervista con Helena Kontova e Giancarlo Politi su Flash Art no 118 febbraio–marzo 1984 Enzo Cucchi (Morro D’Alba, 1949) alla domanda se gli piacesse dipingere risponde: “Ma no, è una cosa orribile”. Più che comprensibile per un artista come Cucchi, fra i protagonisti della Transavanguardia, che guarda all’arte come idea di una economia spirituale, che si interessa ai piccoli territori per poi proiettarsi all’esterno. Intorno a queste due dimensioni, fra il localismo e la globalità, si sviluppa un dialogo con Alex Katz (New York, 1927). Nella conversazione che segue – sotto forma di doppia intervista – i due artisti continuano a riflettere sul fare pittura e sui mutamenti del sistema dell’arte che entrambi osservano fin dal loro incontro a New York alla fine degli anni Ottanta.
Enzo Cucchi: Il 6 giugno hai inaugurato la mostra più importante di questo secolo – “Downtown Painting”, da Peter Freeman Gallery a New York – una collettiva curata da te. La pittura è diventata qualcosa di realmente globale, prima era limitata, oggi non più. Oggi la pittura è spalmata sul mondo. Per questa mostra hai richiesto solo opere bidimensionali, perché? Qualche anno fa una richiesta del genere sarebbe potuta sembrare reazionaria. Ancora una volta un pittore mostra al mondo (e la fa accadere) la cosa più importante per l’umanità.
Alex Katz: Per quel che riguarda i lavori bidimensionali, trovo più energia nella “pittura downtown” che nella “scultura downtown”. In linea di massima in giro ci sono più pittori energetici che scultori energetici, principalmente perché la maggior parte degli scultori finiscono per lavorare più con l’arte neo-concettuale. Si sentono più a loro agio lavorando concettualmente piuttosto che con oggetti fisici.
EC: Mi piacerebbe sapere se nei paesaggi della tua infanzia fossero presenti i segnavento… Non ti sorprendono? Sei una brezza che spazza il tuo paese, caratterizzandolo come un drappeggio, una pelle.
AK: Non avevo mai visto un segnavento fino ai ventun’anni. Ce ne sono di bellissimi in Maine, vicino al mio studio. Sono oggetti primitivi, ma sembrano pezzi di arte moderna.
EC: Credo che la maggior parte del mondo dell’arte oggi odi la pittura, anche se lavora con la pittura stessa. Cosa pensi di questo fenomeno? Credo che la maggior parte di queste persone sia composta da artisti falliti, hanno fallito in arte, hanno fallito in amore. Non pensi che anche tutta questa gente che oggi scrive d’arte tenti di bloccarci? Lavorano in un campo differente, cercano di prevedere dove l’arte andrà nel futuro… Ma l’arte non si interessa del proprio futuro.
AK: Oltre duecentocinquantamila persone prenderanno una laurea in arti visive quest’anno negli Stati Uniti, questo non vuole certo dire che diverranno tutti pittori. Intendo dire che la pittura devi realmente volerla fare. Loro amano l’arte ma non vogliono buttare via la loro vita pur di essere pittori. Non credo che questo sia legato al fallimento, credo riguardi piuttosto ciò che vuoi fare. Il campo dell’arte si è diversificato da quando io sono diventato un pittore, oggi alcune persone sono interessate alla pittura, altre no. È semplice. Alcuni pensano che ormai la pittura è passé. Il pubblico odierno interessato alla pittura è forse lievemente più vasto di quello che era negli anni Cinquanta, ma resta pur sempre una minoranza in un mondo dell’arte tanto più grande. Cosa rende un artista globale e cosa un artista provinciale secondo te?
EC: Credo che un artista globale debba prima di tutto vedersela con la comunicazione, un artista provinciale deve invece sottostare alle solite vecchie regole locali, proporzioni, armonie (la Madonna Rucellai di Duccio da Buoninsegna veniva portata in visibilio dal popolo – molto provinciale – che forse non la capiva, ma la rispettava). I pittori provinciali vivono in luoghi pieni di moralismo e occhiatacce – un ambiente ostile è un buon filtro, pochi resistono e non si fanno influenzare. L’artista globale ormai è dappertutto, forse per trovare un artista realmente provinciale oggi devi andare nella jungla.
AK: All’infuori della cultura italiana, che genere di influenze hai avuto?
EC: Non capisco pressoché nulla di ciò che non è italiano. Quindi, all’estero, mi influenzano prevalentemente le emozioni. Tanti anni fa, forse verso la fine degli anni Ottanta, venni a New York e ti incontrai, ti chiesi cosa avrei dovuto vedere di emozionalmente forte, e tu mi hai detto qualcosa come: “l’emozione degli artisti non è più nelle gallerie, ma nelle aste”. Gli artisti erano molto attenti e presi dal fenomeno dei loro quadri messi all’asta. I lavori per le gallerie non avevano più quella emotività speciale, tutto si era traslato nelle aste. Mi colpì molto questa capacità di leggere ciò che sarebbe successo nei trent’anni a venire.
AK: Ti piacciono i film tedeschi?
EC: Dei tedeschi preferisco i loro calzolai, purtroppo non possiamo andare dai loro sarti perché non sono capaci. Il film tedesco è una conseguenza di questa piccola contraddizione. Hanno dei buoni calzolai ma non sanno abbinarci un buon vestito sopra. Sia il cinema tedesco, che l’arte tedesca hanno difficoltà a posare le cose in terra (Masaccio non aveva questi problemi).