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23 Maggio 2017, 11:00 am CET

Eurasia di Alberto Zanchetta

di Alberto Zanchetta 23 Maggio 2017
Stefano Cagol "Flu Game [Gioco di fluorescenza]" (2008).
Stefano Cagol "Flu Game [Gioco di fluorescenza]" (2008).
Stefano Cagol “Flu Game [Gioco di fluorescenza]” (2008).

Il mondo è simmetricamente diviso tra il razionalismo occidentale e il misticismo orientale, emisferi che Beuys aveva riassunto nel concetto di “Eurasia”, intendendo con esso una forma di entropia oltre che un’ideale riunificazione tra Roma e Bisanzio. Negli ultimi anni l’arte dell’Est e quella dell’Ovest non sono più nettamente separabili, ma neppure facilmente intercambiabili; oramai la cortina degli Urali divide in un senso più politico che fisico, a riprova del fatto che tutto è facilmente raggiungibile, e che niente è più lontano o ignoto. Le culture finiscono per mescolarsi senza perdere le loro peculiarità, ne sono un esempio le mappe di Boetti e di Cristina Lucas, topografie di micro-livelli razziali, sessuali, economici, che dimostrano come ogni società sia più soggetta a paradigmi locali che a strategie transnazionali. Un categorico rifiuto dell’omologazione è insito nel titolo stesso della mostra, perché alla visione dell’Eurasia si dovrebbe controbattere con quella dell’“Asiopia”; si tratta infatti di un processo di integrazione, non di assorbimento, che Mircea Cantor riesce a spiegarci modificando in un plurale il nome della testata francese Le Monde. Nell’introduzione del catalogo, Achille Bonito Oliva inneggia alla resistenza delle differenze artistiche e delle differenziazioni culturali, fermo restando che il punto di partenza per giungere all’interconnessione di locale e globale deve essere un’esperienza individuale: l’artista può quindi continuare ad operare all’interno del contesto — poroso ma fertile — in cui si trova. Pur rinverdendo il rapporto ontologico tra arte e realtà, la mostra preferisce indagare obiettivi estetici anziché politici, evitando così inutili retoriche, opere tassonomiche o noiose documentazioni sulle problematiche dei singoli governi. Di particolare fascino e suggestione le installazioni di Shiota, Nasseri, Schabus, Beier/Lund, Castillo, Sarcievic e Haegue Yang, che suggeriscono un possibile orientamento sul versante del minimalismo sociale. Talvolta l’esposizione tradisce un’ironia agrodolce (il giardino zen con le forme di formaggio di Zakharov, il trasformismo di Tsui, le ceramiche di Hajdinaj, la sinfonia di Rizzo, il set fotografico di Reuter che trasforma un panorama in un tramonto) per poi introdurre riflessioni a sfondo ecologico, come nel caso di Jun Yang e Caretto/Spagna. Accade inoltre che nelle opere di Abdul e di Namazi le dissolvenze geografiche — termine preso in prestito dal linguaggio mediale — sfumino dal nero al bianco, lasciando trasparire una “memoria meticcia”. Tale riunificazione culturale tende tuttavia a parificare i significati di nomade, turista, clandestino, vagabondo e flâneur, mettendo a soqquadro l’identità collettiva. Sintomatico, in questo senso, il Centro di Permanenza Temporanea di Adrian Paci che si riduce a un non-luogo a procedere. In nessun-luogo si svolge invece il video Partire di Clemens von Wedemeyer: non importa quale sia la destinazione, ciò che più conta è mettersi in movimento. Malgrado ciò, la protagonista resterà intrappolata nelle lungaggini di una burocrazia kafkiana e finirà per chiedersi se «Has everybody gone nuts?». Forse non tutti sono impazziti, ma la schizofrenia cui siamo sottoposti dal cosiddetto fenomeno glocale ci costringe a rivedere determinate posizioni, accettando come “non-occidentale” l’Est e come “non-orientale” l’Ovest, secondo un discorso apofatico che destabilizza centro e margini.

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