Arianna Rosica: Ti ricordi quale è stata la prima fotografia che hai scattato?
Fabrizio Ferri: Ero a Roma, in Piazza San Giovanni, a una manifestazione del 1° Maggio 1970. Un mio compagno di classe aveva ricevuto in regalo una camera oscura e aveva chiesto ad alcuni di noi di fare qualche foto affinché lui potesse stamparle. Non avevo una macchina fotografica, né in famiglia ne avevamo mai avuta una. Così me la prestò mio zio, una Contax. Chiesi a un fotografo professionista che si aggirava per la manifestazione con tre macchine al collo con obiettivi diversi di spiegarmi come funzionasse la mia. Mi guardò seccato poi mi disse: “Vedi questa ghiera? Sono i diaframmi, ogni ora fagli fare uno scatto verso i numeri più bassi. Vedi quest’altra? Non la toccare, sono i tempi dell’otturatore”. Era un bell’uomo con barba e capelli bianchi ricci. Seppi dopo che si trattava di un grande reporter, Vezio Sabatini. Mentre mi allontanavo dopo averlo ringraziato, mi sono girato ancora una volta: mi stava fissando e con un sorriso mi gridò “… e buona fortuna!”. Girai in lungo e in largo e non scattai una foto. Poi, durante il discorso di Luciano Lama, passai davanti alla barriera, proprio sotto il palco e davanti a me tra la folla nella prima fila vidi un uomo appoggiato con i gomiti al legno della transenna, che guardava verso l’alto ascoltando il comizio. Era un contadino con la pelle bruciata dall’aria e dal sole, due grandi occhi chiari. Accanto a lui, la moglie lo teneva a braccetto e aveva piegato la testa contro la sua, poggiandola tra il collo e il capo del marito. Sulle spalle un bambino di quattro o cinque anni che poggiava a sua volta il mento sulla testa del padre. Un trittico intenso di tre volti così vicini che guardavano tutti nella stessa direzione, ascoltando. Cioè attenti, con una medesima tensione. Sullo sfondo bandiere rosse e mezzo milione di persone. Feci un sobbalzo cogliendo tutto ciò con lo sguardo: tirai su la macchina fotografica e feci uno scatto. Diedi poi il rullino, con solo quel fotogramma impressionato, al mio amico che me ne regalò una stampa. Qualche giorno dopo un giornalista di un quotidiano romano amico dei miei genitori venne a cena da noi e per caso vide la fotografia: chiese subito chi l’avesse scattata, mi chiamarono e mi disse che stava scrivendo un articolo sull’“ingresso della politica nella famiglia italiana” e che non aveva immagini di costume politico che potessero illustrare l’articolo. Volevo venderla? Il giorno dopo andai al giornale con la stampa e ne uscii con 100 lire. Non ho più smesso di fotografare. Quello che non sapevo ancora era che avevo da subito capito che avrei scattato foto solo quando provavo un’emozione vedendo qualcosa, e che scattandone una, anche chi avesse visto quella foto avrebbe condiviso la mia stessa emozione. È ancora così. La mia formazione è stata immediata e istintiva.
Samuele Menin: In tanti anni di attività hai avuto modo di incontrare tanti personaggi famosi. Con chi è stato più facile lavorare?
FF: Ho sempre trovato facile lavorare con tutti i personaggi famosi. Se fosse difficile nessuno lavorerebbe con loro e non sarebbero tali. Più sono famosi e più sono disponibili. È anche vero che arrivano sul set avendo già approvato il fotografo con cui lavorare.
AR: Secondo te quali sono le fasi necessarie per realizzare un buon ritratto? Cerchi di instaurare un rapporto con il soggetto, ti informi, ti documenti su di lui o scatti d’istinto?
FF: Mah, io parlo poco, dico cose normali, saluto, scherzo, parlo con il truccatore e il parrucchiere. Ma facendo tutto ciò tengo lo sguardo fisso negli occhi del soggetto, che guarda a sua volta i miei. Non mollo mai. E in quello sguardo si forma il ritratto: ci si capisce, rispetta, conosce. Poi in genere basta uno scatto o poco più e il ritratto è fatto.
SM: Normalmente come ti approcci a una fotografia, a una nuova serie?
FF: Pensando il meno possibile, per non crearmi delle aspettative, per non diluire la capacità di riconoscere quell’emozione di cui parlavo prima. Tuttavia cerco di produrre il lavoro al meglio per creare le condizioni necessarie a che tutto ciò sia libero di accadere.
AR: Come fai a decidere se utilizzare il bianco e nero o il colore? Quali differenze di sensibilità riscontri nell’uso di una o dell’altra?
FF: Ieri con la pellicola, quando la scelta era a monte dello scatto, e oggi con il digitale in cui puoi decidere quando vuoi e anche cambiare idea, la penso allo stesso modo: il bianco e nero è come raccontare o esprimersi con poche parole.
AR: C’è una fotografia o una serie che pensi che ti rappresenti al meglio?
FF: No, non lo so… le foto rappresentano se stesse. Mi sembra che una volta scattate si stacchino da me. Hanno vita propria.
AR: Sei ancora alla ricerca dello scatto perfetto o pensi di averlo già fatto?
FF: Diciamo che io non scatto se quello che ho davanti non coincide con come lo vedo (lo sento) io. Non cerco la perfezione ma l’autenticità: far vedere agli altri come io ho già visto.
SM: Il personaggio del passato che avresti voluto fotografare?
FF: Giulio Cesare, di cui ho fotografato una testa in marmo ritrovata in una vecchia cisterna a Pantelleria. Una delle fotografie a me più care.
AR: Un pittore dalla sua ha la possibilità di poter sempre intervenire sulla tela che sta realizzando mentre tu devi cogliere l’attimo. Che differenze riscontri tra la pittura e la fotografia?
FF: Entrambi fissiamo la nostra impressione delle cose, il pittore impiega più tempo.
AR: Qual è il tuo incubo peggiore?
FF: Le interviste…
SM: Quali differenze riscontri tra fotografare una persona o un’architettura?
FF: La persona si muove nella luce. Un palazzo no, ma si muove la luce su di lui. Quindi a volte si sta ad aspettare un giorno intero per vedere la luce muoversi sull’architettura definendone e cambiandone le ombre, i contorni, per poi anche dover tornare il giorno successivo.
AR: Ti è mai capitato di rivedere dopo qualche anno una tua fotografia e volerla riscattare diversamente?
FF: Mai.
AR: Come è cambiato il mondo dei fotografi da quando hai iniziato a oggi?
FF: Oggi la fotografia è alla portata di tutti, non ci sono più barriere né tecniche né finanziarie. Ricordi quando si diceva di una fotografia appena scattata “speriamo sia venuta”? Oggi non ha più senso una frase del genere.Tutti possono fare buone fotografie, ovvero condividere ciò che hanno visto. Ma la differenza, oggi più che allora, la fa il talento, la sensibilità, l’intuito del fotografo.
Ciò che è cambiato per sempre è la funzione della fotografia come partner della carta stampata. I giornali si vendono sempre meno, quindi le fotografie per gli stessi servono sempre meno. E mentre tutto si sposta sulla rete, la fotografia sgomenta riconosce il proprio limite: è ferma. Credo che il futuro della fotografia sia in immagini che si muovono, che registrano più di un attimo, e contemplano il movimento: si chiamano LLI, Long Lasting Images.
AR: Vivi a New York, frequenti altri fotografi? C’è qualcuno di giovane che segui?
FF: Non frequento altri fotografi, li incontro con piacere nei miei studi INDUSTRIA nel Meat Packing district di NY, dove ho aperto nel ’91. Vent’anni fa. Vedo tanti giovani innamorati della fotografia e non del “vedere”. E tanti che seguono inutili scuole dove nessuno può insegnare il talento.
SM: Ti interessa la condizione del tempo fotografico che rende ogni scatto e conseguentemente il soggetto ritratto eternamente passato ed eternamente presente?
FF: La condizione di Immanenza che genera un ritratto vale più per la fotografia stessa che per il soggetto.
AR: Sei interessato al fenomeno per il quale il nostro sguardo di spettatori agisce sul volto ritratto creando in noi l’illusione che il volto risponda alla nostra contemplazione?
FF: Mi interessa soprattutto quando nell’osservare un ritratto ci si sente osservati noi stessi, ovvero quando il fotografo è riuscito a diventare un mezzo e non il capolinea di uno sguardo.