Alfredo Aceto: Ciao Federico, come ti senti oggi?
Federico Tosi: Ciao Alfredo, piuttosto bene grazie, leggero hangover da ieri ma direi tutto sotto controllo.
AA: Iniziamo a parlare della tua mostra “Vento Forte” alla galleria Monica De Cardenas di Zuoz dove hai scelto di lavorare su una sorta di paesaggio frammentato da avvenimenti emergenziali capaci di sovvertirne le priorità. Qual è stata l’ispirazione che ti ha portato a scegliere il tema dell’emergenza?
FT: È bastato alzare la testa e guardarmi attorno per notare una serie di eventi che presto avrebbero impattato sulle nostre vite, ancora prima del Covid-19. C’era del vento nelle sculture alle quali stavo lavorando e non ne capivo la ragione, se non una fascinazione plastica e una goduria totale nel modellare sculture figurative in argilla colpite dal vento. Poi ho capito che il vento avrebbe potuto funzionare da archetipo che racchiudeva tutti i problemi che mi stavano attorno e come per magia il Dio dei venti è diventato Dio delle mosche. Il bello è che il vento non lo vedi, ma ne subisci le conseguenze. Il vento non si fa mai vedere quindi potevo raccontare di una lieve brezza, di un vento forte o di un’esplosione assurda senza mai dover cambiare “emergenza”.
AA: Sono paesaggi postumani i tuoi?
FT: No, sono paesaggi che vedremo tra una ventina d’anni. Il postumano verrà dopo.
AA: Molti scrivono di antropocene come un fenomeno destinato a mutare per dare una nuova possibilità agli esseri umani. Tu invece sembri palesare alle persone l’idea di scomparire per davvero.
FT: A me interessa che il potere vada dal basso verso l’alto, mai al contrario o sarebbe oppressione. Mi interessa la satira. Adoro vedere gli oppressi che si ribellano, le vittime che deridono i sovrani. Quindi sì, godo nel vedere tsunami, terremoti, alluvioni, incendi e così via. Sento la voce di un oppresso, un maltrattato, sfruttato, inquinato che ci maledice. Se poi le cose dovessero migliorare ne sarei felice, io fortunatamente sto descrivendo un possibile futuro, non tutti i futuri.
AA: Vedere i problemi del mondo da vicino e con debito realismo è doveroso ma è ancora un gesto che mette nuovamente noi umani in una posizione di centralità. Forse per una lucertola o per un giunto metallico tutto questo non è così problematico… Non credi che Gaia se la caverebbe anche senza di noi?
FT: Credo che anche la lucertola, nella sua enormità, sia coinvolta in questa discesa. Tutto il pianeta è un unico organismo in equilibrio, quindi basta eliminare un elemento per creare disordine e generare un effetto domino in cui ogni essere è inevitabilmente coinvolto. Il mio discorso non ruota attorno al dualismo buono/cattivo – secondo questa logica altrimenti la tigre sarebbe cattiva perché divora la gazzella. La mia riflessione verte sui rapporti di subordinazione tra esseri viventi all’interno di un sistema chiuso. Pensiamo alla pandemia, che stiamo ancora vivendo, dove un virus ha subordinato l’uomo a sé; anche se non siamo usciti di casa per mesi diventa difficile quantificare quanto una lucertola ne abbia percepito il cambiamento, ma non è importante. Questo è un discorso incentrato sulla coscienza ed è difficile stabilire il livello di coscienza di una lucertola. Ciò che va stabilita è l’entità dell’azione e, soprattutto, delle conseguenze. È lì che mi interessa collocare la coscienza.
AA: È necessario essere macabri per essere intelligenti?
FT: Non penso sia necessario. Io mi sento molto più macabro che intelligente e Elon Musk mi sembra molto più intelligente che macabro. Tuttavia è vero che una certa noncuranza verso la paura della morte o una feticistica passione verso il truculento rende la vita più affascinante. O, almeno a me, affascina.
AA: Ho notato che utilizzi spesso dei dispositivi tradizionali di presentazione del lavoro come plinti o tavoli.
FT: Quello che mi interessa è l’oggetto nella sua nitidezza e collocarlo in condizioni specifiche, come display installativi, distoglierebbe la mia attenzione per cui preferisco soluzioni semplici (a volte vagamente obsolete). D’altra parte fare finta che un oggetto non sia appeso mi infastidisce, quindi molto spesso lascio viti e ganci a vista, mi sembra più onesto.
AA: Parli di sculture che dovrebbero sollevare flussi di coscienza o di consapevolezza in chi le osserva, ma sono anche sculture destinate ad un mercato. Qual è il tuo rapporto con il denaro?
FT: Visualizzo il denaro come una specie di unità di misura della propria realizzazione in termini capitalistici. Penso che realizzazione spirituale e capitalistica viaggino su binari diversi e non sempre sincronizzati ma che molto spesso si incrociano – e mi pare che in questa realtà al 99% capitalistica la realizzazione economica influenzi parecchio quella spirituale.
Nel caso dell’arte, l’opera viene gratuitamente donata agli spettatori, quindi il suo significato intrinseco non muta. L’opera deve avere un valore di mercato perché è inserita all’interno di un mondo che funziona in questo modo, ma le due entità osservazione-vendita non si disturbano l’una con l’altra. Del resto se non vendi le opere non ne puoi fare di nuove.
AA: Qual è la più grande cattiveria che hai fatto al tuo lavoro?
FT: In passato sono stato aggressivo verso il lavoro e le vittorie di chi mi stava intorno. Ho provato rabbia invece che dolcezza e gioia, pensavo che le conquiste delle altre persone avrebbero ostacolato la mia strada. Questo avvelenava sia il mio lavoro sia il mio pensiero. Poi si cresce, si impara a stare più comodi nella propria pelle e ad apprezzare realmente le vite degli altri. Oggi mi rendo chiaramente conto dei demoni che mi aleggiavano attorno, ma ripenso a quel periodo con una punta di dolcezza, non con rabbia.
AA: La nostra generazione è meno individualista di quelle che ci hanno preceduto anche se nei fatti ognuno fa per sé. Come la vedi?
FT: Penso che ognuno nella propria vita abbia il potere di rendere il mondo un posto migliore o peggiore e il più delle volte a renderlo peggiore ci si mette davvero un attimo. Per renderlo migliore bisogna coalizzarsi. Mi pare lo si stia facendo, ma troppo poco.
AA: Ma i lavori che si vendono sono migliori o peggiori di quelli che nessuno vuole?
FT: Mi pare che siano i migliori, però magari mi sbaglio.
AA: Cos’è il lusso per te?
FT: La prima volta che un Homo Sapiens ha costruito un letto comodo in pelliccia di alce, decorato con artigli di orso e denti di tigre: quello per me era già lusso; se avesse usato la stessa pelliccia per coprirsi, gli artigli d’orso per costruire un utensile e i denti di tigre come amuleto, ecco quella sarebbe stata sopravvivenza.
AA: Ti senti cinico?
FT: Penso che si possa piegare una persona ma che non si possa piegare una mela.
AA: Anche Walter White lancia la pizza sul tetto di casa ma il tuo gesto mi pare diverso perché diventa uno standard e si svincola dall’urgenza. Mi parli delle tue pizze?
FT: Nel mio gesto c’era meno urgenza ma anche meno rabbia. Walter White agisce stizzito quando quella noia mondiale di sua moglie lo becca mentre cucina metanfetamina e lo caccia di casa e lui lancia sul tetto la pizza (intera) che aveva appena comprato. Le pizze che ho fatto io funzionano un po’ diversamente, ma forse anche nel mio gesto c’era un po’ di rabbia – il vento di cui ti parlavo prima è stizzito, quindi la tua connessione non fa una piega. La tecnica che ho usato, di lanciarle, è stata utile per creare delle forme che fossero onestamente simili alla realtà e non troppo plagiate dalla modellazione delle mani. Quindi ci sono due modalità di modellazione mescolate: prima la creazione dell’oggetto, fatto a mano, carino, con le verdure, il salame eccetera, e poi, quando ancora l’argilla era morbida, la sua distruzione che sfrutta il disordine e l’entropia propri di un oggetto molle lanciato a caso. Dopo l’impatto non le ho più toccate, le ho lasciate ad asciugare e poi le ho cotte e dipinte.
Sai che una volta una persona mi ha denunciato per averle lanciato una fetta di pizza in faccia? Però era più un gesto di offesa, la pizza era tiepida… Alla fine ha ritirato la denuncia e ho pensato che sarebbe stato divertente andare a processo per “lancio di fetta di pizza tiepida in faccia”, sarei stato felice anche se avessi perso.
AA: Le tue pizze sono preparate con una certa cura, il che mi fa pensare allo studio e alla cucina che sono luoghi dove il mondo compie una metamorfosi. Funghi, pomodori, mozzarelle – poco importa che siano commestibili o meno – nulla esce nello stesso modo in cui vi è entrato. In qualche modo tocchi qui un punto fondamentale del rapporto fra il cosmo e l’antropocentrismo.
FT: Sì, forse c’è un po’ del piccolo demiurgo quando si vuole modellare la materia in questo modo (partendo dall’argilla poi!). Fischli e Weiss dicono una cosa importantissima a riguardo: l’argilla non oppone resistenza tra pensiero e gesto, ed è vero. Modellare soggetti figurativi con un materiale che non oppone resistenza è così piacevole e appagante che sembra essere un gesto infantile, anche se a me è sembrato preistorico. La modellazione a mano libera è antichissima e mentre lavoravo a queste sculture lo sentivo particolarmente. Mi sono divertito parecchio, questa tecnica è così gratificante che per un bel po’ mi è sembrato che i lavori che producevo fossero in qualche modo disonesti, troppo semplici, scontati. Ma penso che il bello dell’argilla sia proprio questo, che a tutti viene bene e che chiunque può fare una bella scultura con questo materiale perché il gesto di modellare è una cosa che conosciamo già tutti, l’abbiamo in dotazione nello starter pack.
AA: Produrrai dei film in futuro?
FT: Uno snuff.
AA: Mi piace pensare di diventare tutti insieme dei fiori di zucca. Oppure una serie di posacenere o un’albicocca gigante. Perché privarci della possibilità di immergerci nell’altro cambiando totalmente il punto di vista sul mondo delle cose? Non limitarci a guardarle ma diventare parte di loro…
FT: Qualche anno fa ho fatto una piccola scultura in cui ci sono due cellule tumorali che si tengono per mano. Stavo ragionando esattamente su quanto stai descrivendo e lo volevo fare andando in una direzione oscura. Volevo immedesimarmi nel nemico. È un gioco che ho fatto tante volte ma più che entrare in empatia con gli oggetti mi immedesimavo nella controparte.
AA: Miaoooooooo (2021) è un lavoro costituito da una serie di gatti che mutano dall’uno all’altro fino a scomporsi, a sciogliersi o essere spazzati via dal plinto. La trasformazione e la sperimentazione del corpo è qualcosa di importante per il nostro contesto storico. Più che una “stop motion”, quel lavoro mi fa pensare alla transizione e all’annullamento dei confini geografici e corporei.
FT: È come se nella distruzione fosse contenuto l’intero ordine delle cose, quindi nel vuoto rimane la traccia di cose che noi non possiamo vedere ma che ci sono state. Ma quando inizia esattamente il pieno? Con il bosone o con la coscienza? Se nessuno lo potesse nominare il tutto esisterebbe davvero? Mi chiedo se quell’annullamento a cui ti riferisci sia una nuova forma di coscienza donataci dalla tecnologia o una nozione innata che possediamo. Forse siamo già stati polvere.
AA: Milano?
FT: “Ma dove corri? Non siamo a Manhattan! Tra là e qua è come Pandemonium con Pac-Man” – Uomini di Mare, Gratta E Gratta (1999).
AA: Come ti posizioni rispetto ai molti artisti che si interessano a tecniche amatoriali producendo lavori vernacolari? Riusciresti a delegare la produzione?
FT: Mi interessano entrambe le metodologie, sia quella alla garage band sia quando si coinvolgono altre persone molto più specializzate. Credo che il focus sia proprio la specializzazione: ci sono azioni che posso eseguire da solo e tecniche che posso imparare. Ma alcune cose, tipo programmare un Arduino o realizzare una giga scultura in legno di ulivo incollando e tornendo blocchi di massello, non le posso fare in studio, non ne sono capace e non mi interessa particolarmente imparare a farle. Mi interessa però saper comunicare esattamente le mie intenzioni e circondarmi di persone specializzate che lavorano insieme a me. Voglio che l’opera sia seria, potente, come ci si arriva non è davvero importante.