In un saggio illuminante apparso nel 1996 sulla rivista October, Hal Foster definisce l’archivio come il luogo dove le antinomie si radicalizzano.[i] Nell’archivio, infatti, ogni segno assume su di sé la possibilità di molteplici significati in relazione alle scelte teoriche che danno vita a racconti di volta in volta inediti anche se costruiti su materiali spesso già noti.
L’archivio di Filiberto Menna, conservato nella biblioteca della Fondazione salernitana a lui intitolata, consiste di materiali per lo più editi (fanno eccezione qualche appunto e frammento di discorso che non si identificano facilmente con il materiale pubblicato). Nonostante questo, resta di estrema fascinazione sfogliare le carte del critico salernitano per entrare in contatto ravvicinato con la sua scrittura e con il metodo di lavoro da lui adottato. Per la forma disordinata in cui sono conservati i materiali, che attendono da anni di essere definitivamente catalogati dopo una sommaria organizzazione avvenuta quando il fondo è stato donato da Bianca Pucciarelli Menna alla Fondazione istituita nel 1989 alla morte di Filiberto, l’archivio del critico restituisce il carattere magmatico, per pratica e pluralità di interessi, della sua scrittura. Menna infatti è stato un critico militante e collaboratore di numerosi quotidiani e di gran parte delle riviste che erano il territorio più proficuo della sperimentazione delle neoavanguardie in Italia nelle decadi che lo hanno visto attivo; docente e direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte del neonato ateneo salernitano; e, infine, consigliere regionale. Tale poliedricità si rispecchia nel corposo patrimonio di carte, dattiloscritti, appunti preliminari per le numerose recensioni e saggi critici, nella corrispondenza con gli amici e colleghi, negli appunti che risultano dalle sue letture. Parimenti a come Menna intende il carattere della critica d’arte – scrittura inesausta e interminabile – nel suo archivio non si può che procedere lentamente in un’operazione di inabissamento e riemersione.
Nello spazio di ogni archivio il confine tra dimenticanza e memoria è poroso, perché la sola conservazione di un fatto non implica immediatamente che la memoria di esso sia attiva, o attivabile. Archivio è probabilmente sinonimo di discorso, ma allo stesso tempo di una pratica di oblio, alternata a quella del (ri)portare alla memoria, che esime l’uomo dall’ossessione dell’accumulo. Questo processo di temporanea dimenticanza, che prelude necessariamente a uno di risignificazione, scardina dal profondo le impalcature istituzionali che hanno la pretesa di conservare intatti, nell’attualità, memorie ed effetti storici. L’archivio di Filiberto Menna, come ogni archivio è un luogo critico, dove nessun gesto di selezione è neutrale. L’arte e la critica d’arte sono partecipi di questo processo di scavo, “terminabile” e “interminabile” per dirla con le parole di Freud, e hanno praticato a lungo il procedimento di “dimenticare a memoria”. L’ossimoro aveva ispirato nel 1969 l’artista Vincenzo Agnetti per la realizzazione del suo Libro dimenticato a memoria in cui l’ingombro del testo era stato tagliato via. La recensione della mostra di Agnetti a firma di Filiberto Menna, apparsa il 13 febbraio 1973 su il Mattino, e significativamente posta in copertina dell’antologia di articoli di Menna Cronache dagli anni Settanta. Arte e critica d’arte 1970-1980 a cura di Antonello Tolve e Stefania Zuliani (Quodlibet, Macerata 2017), può essere utilizzata come chiave di lettura per un attraversamento dell’archivio di Menna.[ii]
Biblioteca, collezione e archivio hanno in comune, per via di un’analoga scintilla iniziale che innesca l’accumulo, una medesima allure. Le carte, i volumi e gli oggetti stanno insieme come “teatro del loro proprio destino”, scriveva Walter Benjamin a proposito del gesto autoritario del collezionista che seleziona e impone un ordine agli oggetti sospesi tra caos e destino.[iii] Ma come attraversare un archivio come quello di Menna in cui documenti editi si mischiano a materiali di lavoro, abbozzi, appunti, a diverse redazioni di saggi editi e a frammenti? La mancanza di indicazioni cronologiche – una sola guida è stata la bibliografia dei materiali editi – per molte carte conservate nell’archivio ha reso più intricato il tentativo di orientamento. Se la critica procede, come Menna stesso ha sostenuto in più occasioni, secondo una marcia a delfino, e cioè con alternanza di immersioni ed emersioni, allora potremmo pensare che l’itinerario che propongo sia uno solo degli esiti possibili di un “tuffo” tra gli scritti e le carte del critico con apnee nella fase subacquea e profondi respiri in superficie.
Il primo sguardo al lavoro e all’archivio di Filiberto Menna, necessariamente, deve passare per la lettura delle numerose monografie pubblicate. Nell’esteso elenco delle monografie è opportuno sottolineare l’esordio del giovane Menna che, laureato in medicina e chirurgia a Napoli nel 1951 e trasferitosi presto a Roma per l’incarico di medico provinciale presso il Ministero della Sanità, si avvicinò prima all’insegnamento di Longhi e poi si indirizzò verso la linea di Venturi-Argan. Nel 1962 era ormai maturato un chiaro indirizzo arganiano rintracciabile nell’inchiesta d’esordio sul disegno industriale e nella monografia dedicata a Mondrian. I due saggi del 1962 sono fondamentali per capire l’indirizzo, totalmente autonomo, che Menna svilupperà successivamente nella riflessione prima sull’avanguardia artistica e sul movimento moderno in architettura (del 1968 è il celebre volume La Profezia di una società estetica) e poi su quella che definirà la linea analitica dell’arte moderna (1975). Nel celebre saggio del 1975, Menna segue una linea nella storia dal postimpressionismo in avanti che, a partire dalla rottura epistemologica avvenuta sia nell’arte sia nella filosofia, mette in questione la corrispondenza immediata tra linguaggio e realtà e afferma lo statuto linguistico dell’opera d’arte moderna.[iv] Con questo saggio l’articolazione del pensiero di Menna si è aperto all’alterità, mettendo in relazione il discorso analitico dell’arte moderna con il controdiscorso dell’arte, in cui il soggettivismo, il desiderio, l’individualità fanno da controcanto alla prima ipotesi, smantellandone, in parte, l’autoritarismo. In questo senso è centrale nella parabola del teorico il convegno sul Surrealismo nel 1976 che egli ha curato, presso l’ateneo salernitano. Un itinerario tra le sue monografie deve necessariamente ribadire l’importanza nel dibattito italiano della riflessione metodologica a cui Menna dedica lo stringato ma densissimo saggio Critica della critica (1980) e il Progetto moderno dell’arte (1988).
Il rapporto intenso con gli artisti ha indirizzato la militanza della sua critica. Dall’iniziale lavoro d’indagine dell’opera di Masaccio, pubblicato su La Fiera Letteraria nel 1958, al più recente saggio dedicato all’opera di Zvi Goldstein, pubblicato in occasione della mostra monografica al Centre George Pompidou di Parigi nel 1988, la densità della scrittura del critico e l’enorme quantità di saggi e frammenti “amorosi” conservati nel fondo archivistico documentano la vitale vicinanza di Menna agli artisti. Menna seguiva instancabilmente le sorti dell’arte, anche come critico responsabile della pagina culturale di alcuni quotidiani, cominciando molto presto a Telesera, per poi continuare per tutti gli anni Sessanta fino al 1974 e al suo allontanamento dal ruolo di critico d’arte del giornale in seguito allo scandalo suscitato dalla mostra di Ürs Luthi allo studio Morra. Il pezzo pubblicato per recensire la performance di Luthi Non sei solo ad essere solo fu scritto da Angelo Trimarco, ma le polemiche e l’ostilità dell’establishment del giornale furono tali che Menna rassegnò le dimissioni. Ad alcuni sembrò una rimozione politica e tale ipotesi è avvalorata dal fatto che l’anno successivo, dalle pagine de l’Unità, Menna annunciò la sua candidatura come indipendente nelle liste del P.C.I. alle elezioni regionali. Successivamente collaborerà con altri quotidiani come Paese Sera (dal 1978 al 1981) e l’Unità.
La laboriosa attività del critico non si è risolta in una pratica di verbalizzazione e divulgazione delle esperienze dell’arte esercitata dalla comfort zone defilata dell’interpretazione, ma è stata agita negli spazi dell’arte, persino quelli anomali della neoavanguardia rappresentati dalle riviste Cartabianca, Senzamargine (entrambe promosse da Boatto tra il 1968 e il 1969) e Marcatrè (dal 1963 al 1970 anno in cui la rivista smette di essere pubblicata), oltre che su riviste rivolte ad altre questioni disciplinari, come Quadrangolo. Rivista di psicoanalisi e scienze sociali e Metaphorein. Quaderni internazionali di critica e sociologia della cultura. La scrittura di Menna ha accompagnato “senza indulgenza e senza severità”[v] il percorso di singoli artisti con saggi di catalogo e articoli sui quotidiani, condividendo con gli artisti una comune ricerca volta a verificare i limiti e le possibilità dei procedimenti linguistici dell’arte. In questo senso le esperienze critico-curatoriali di “Impatto percettivo” (Amalfi, 1968), “Italy Two. Art around ’70” (Philadelfia, 1973), entrambe curate con Alberto Boato, “La ricerca estetica dal 1960 al 1970” (Terza rassegna nell’ambito della X Quadriennale Nazionale d’Arte, Roma, 1973) e della Biennale di Venezia del 1978 (in cui Menna partecipa alla Commissione coordinata da Bonito Oliva) possono essere lette come tappe operative della sua proposta teorica.
In quest’itinerario che attraversa integralmente l’archivio di Menna è necessario riservare alcune notazioni al design, argomento centrale nella produzione del critico a partire dall’Inchiesta del 1962, fino alle più tarde indagini intorno al disegno industriale e alla psicoanalisi. Lo studio del design è stato sempre inteso da Menna come una riflessione sull’individuo, sui suoi comportamenti e sul suo ambiente, al di là delle qualità estetiche degli oggetti progettati. Il tema del design ha avuto la funzione di esemplificare la curvatura della linea teorica di Menna assunta dagli anni Sessanta fino alla fine degli anni Ottanta. In questo ventennio il critico, nient’affatto senza conflitto, progressivamente riflette prima sulle ragioni del “moderno”, misura il divaricamento tra “artistico” ed “estetico” che si verifica nella società della comunicazione di massa e, nel clima di generale revisione degli anni Ottanta in cui gli artisti e i critici provano a sbarazzarsi delle questioni del politico per rifugiarsi nel più rassicurante dettato del mercato neocapitalista, afferma ancora la possibilità che l’arte sia trasformativa del reale. Il design è centrale in ognuno di questi passaggi: è la cerniera tra ideologia dell’avanguardia e società, nonché punto mediale tra moderno e postmoderno negli anni Ottanta.
Agli appunti, alle letture e alle schede di volumi e materiali di studio di Menna, conservati in un faldone in archivio, andrebbe dedicata una riflessione specifica. Sfogliando le carte relative alla corrispondenza non è difficile incontrare “recensioni informali” di alcuni saggi letti con attenzione da Menna. Per esempio, di illuminante puntualità sono le carte autografe riservate ai “paradossi, parologie, contraddizioni, efficacia di A.B.O.”, come si legge su un foglio datato 10 ottobre del 1981. Veri e propri strumenti di analisi e studio, tali documenti, oltreché alimentare un sottile feticismo per le carte autografe dello studioso, contribuiscono a mettere in luce la qualità scientifica del metodo interpretativo storico-critico del lavoro di Menna. Di particolare interesse sono alcuni fogli dedicati allo studio di Francastel e di Baudrillard e alla loro nozione di “sistema globale”, approfondita alla luce del concetto di “globalità” come articolato nella teoria di Althusser. Tali riflessioni trovano un’ulteriore occasione di confronto nell’articolo “Ragione critica e intenzionalità storica” del 1985 pubblicato nel volume Il pensiero critico di Giulio Carlo Argan (Multigrafica, Roma 1985). Oltre alle letture marxiane, marxiste ortodosse ed eterodosse, un intero bloc-notes riporta appunti di studio sugli scritti freudiani. Alla psicoanalisi, in particolare alle tesi di Matte Blanco, sono dedicati numerosi fogli preliminari alla stesura dell’articolo “La lente di Matte Blanco. Paragrafi su critica e psicoanalisi” pubblicato nel 1989, l’anno della scomparsa di Menna.
A differenza di quanto si potrebbe comunemente credere circa il lavoro in archivio, nel nostro caso, non solo per via della qualità della scrittura del critico sempre compromessa con il presente, si avverte un’intensa forza centripeta. Per dare conto della tensione ancora attiva nelle carte e nelle parole di Menna, sembra imprescindibile la lettura del volume del 1968 La profezia di una società estetica, accompagnata dalla prefazione alla seconda edizione del 1982 in cui le linee del discorso convergono verso il soggetto non più garantito da fondamenti ontologici. Eppure, nella condizione di frammentazione in cui non c’è garanzia che l’arte possa incidere sul reale, Menna suggerisce di “tentare altre strade” e di non rinunciare a un progetto critico che prenda posizione “dalla parte di chi oggi lavora nella direzione di un approfondimento e di un rinnovamento”. Certo è più redditizio, in termini di consenso, ripercorrere gli elegiaci paesaggi della bellezza.[vi]