A parlare oggi di arte e rivoluzione vengono le lacrime agli occhi per rabbia e per nostalgia. Ma c’è stato veramente un momento in cui le due idee marciavano insieme compatte e in cui il mercato non era asservente e condizionante come lo è oggi. Un tempo ci si poteva alzare la mattina e partecipare a un happening, assistere a una performance o inventare un Event, per dirla alla George Brecht. C’è stato un tempo in cui anche un Beatles come John Lennon, fluxista acquisito tramite la sua compagna Yoko Ono, si faceva fotografare con in mano la Genocide Flag (1966) di George Maciunas, in cui l’Impero americano veniva accusato di aver ammazzato più persone di Gengis Khan o di Adolf Hitler: quello vero, non l’innocua marionetta di Cattelan. Insomma agli inizi degli anni Sessanta nasce qualcosa chiamato Fluxus, a opera di Maciunas, architetto lituano e figlio di una ballerina, che si sposta tra USA e Europa a diffondere il virus dell’arte totale. La nascita ufficiale avvenne con il Fluxus Internazionale Festspiele Neuester Musik di Wiesbaden (Germania) del 1962. Vi parteciparono, oltre a George Maciunas, artisti che oggi sono ritenuti tra i più importanti del secolo come Nam June Paik, Wolf Vostell, George Brecht, Giuseppe Chiari, Al Hansen, Gianni Emilio Simonetti, Emmett Williams, Ay-O, Robert Filliou, Daniel Spoerri e Dick Higgins (teorico dell’Intermedia e fondatore della casa editrice Something Else). E la Germania era la nazione europea allora divisa in due da Yalta, la coscienza sporca degli USA e dell’URSS nel loro controllo dell’Europa, in un luogo in cui la ferita della Seconda Guerra Mondiale ci ha messo quasi cinquant’anni a rimarginare.
Successivamente, nel 1963, fu organizzato anche il festival “Fluxorum Fluxus” allestito alla Kunstakadenie di Düsseldorf a cui presero parte George Maciunas, Nam June Paik, Emmett Williams, Dick Higgins, Wolf Vostell, Daniel Spoerri, John Cage, Yoko Ono e Silvano Bussotti.
Nel 1964 uscì il primo numero della rivista CCV tre, organo ufficiale del gruppo diretto da George Maciunas e George Brecht.
Il movimento, aperto a tutti, si estese velocemente in tutta Europa e anche nel resto del mondo; vi aderirono numerosi artisti tra i quali Allan Kaprow, Robert Rauschenberg, Robert Filliou, Christo, La Monte Young, Henry Flynt, Robert Watts, il gruppo giapponese Gutai e molti altri.
Le conseguenze di questa vitalità e sperimentazione multimediale sono state notevoli per l’arte contemporanea. Basti pensare all’invenzione della video arte di Paik, all’uso del televisore come installazione da parte di Vostell già nel 1958, alle Piano Activities di Philip Corner. E poi c’è anche lo sciamano Beuys che riprende nel 1970 il Manifesto Fluxus di Maciunas del 1963 e lo fa proprio cambiando la parola “Europanism” con “Americanism”: adesso si capisce da dove nasce lo slogan “La rivoluzione siamo noi”?
Tutto deve scorrere, fluire. Non c’è mai stato un elenco ufficiale dei fluxisti, Higgins ha detto che Fluxus era un’attitudine, un modo di lavorare e di concepire l’arte e la vita. Kunst=Leben=Kunst. L’equazione è questa e dentro ci sono le particelle elementari di un universo ancora in movimento. Fluxus non ha mai negato la storia, anzi il simbolo con la maschera con la lingua di fuori, è preso dalla “Pietra del sole” cioè dal calendario azteco: possiamo dire che gli artisti hanno sempre cercato una continuità con il passato in una rivisitazione dei simboli, tarocchi (Higgins), icone religiose (il Buddha di Paik), alla ricerca degli archetipi. Sono sempre stati dentro la storia delle persone e dei microeventi giornalieri, attraverso un nomadismo culturale concreto e vissuto.
In Italia Fluxus ha una premonizione nel 1959 quando a Milano John Cage, il Padre di tutte le avanguardie con Marcel Duchamp, assieme a Juan Hidalgo e Walter Marchetti tengono un concerto. Nel 1963 Giuseppe Chiari, musicista fiorentino, partecipa al Festival di Düsseldorf e poi bisogna aspettare il 1964 perché Daniela Palazzoli curi la mostra “Gesto e Segno” alla Galleria Blu in cui a Chiari si affianca Gianni Emilio Simonetti, grande intellettuale e artista.
L’Italia diventa alla fine degli anni Settanta una seconda patria dei fluxisti con collezionisti, editori, compagni di viaggio di questa avanguardia artistica con personaggi come Gino Di Maggio a Milano, Francesco Conz ad Asolo e poi a Verona, produttore dei più bei multipli del Fluxus, e poi Rosanna Chiessi con la Galleria Pari & Dispari di Cavriago e Peppe Morra a Napoli. “Fluxus è”, cioè sembra qualcosa che non si consuma, anche se tanti suoi eroi come Dick Higgins, Emmett Williams, Nam June Paik, George Brecht, Joe Jones e lo stesso Beuys, fluxista integrale, sono tornati puro spirito. Fluxus rimane come atteggiamento e idea, come limite dell’arte anche e ancora di più oggi che siamo abituati a valutare tutto in termini di consenso e di mercato o di scandalo programmato. Non rappresenta un mondo passato, ma un messaggio alle nuove generazioni che vi guardano come a una frontiera da riattraversare, un territorio da riconquistare. Come disse John Cage: “L’arte è in procinto di diventare se stessa: vita”. È questo che vogliamo. Per questo Fluxus riuscirà a sopravvivere anche al suo Giubileo commemorativo, perché non è archiviabile, condensabile, comprabile, perché non ha né forma né luogo.