Francesca Mila Nemni: Il vuoto è il primo elemento che si coglie osservando il tuo lavoro. Eppure sembra che le tue immagini non descrivano l’assenza, ma la presenza. Da dove è partita la tua ricerca?
Francesca Rivetti: Dal mio modo di osservare, innanzitutto. Ho uno sguardo selettivo e col tempo la mia ricerca si è trasformata in una riflessione sul modo di guardare in generale, sulla percezione visiva e sulle sue possibilità. Nei miei lavori procedo per sottrazione, invertendo le proporzioni tra soggetto e spazio libero e decentrando. Il soggetto acquisisce valore proprio grazie alla contrapposizione rispetto al vuoto che lo circonda. L’importanza del vuoto in questo contesto intensifica la presenza del soggetto. Si potrebbe dire che è una mancanza positiva, non è la descrizione di un’assenza drammatica.
FMN: La simbologia sembra essere un’altra costante. Nell’ultimo lavoro, Rotti (2008), però, si incontra più che altro una simbologia personale mentre in passato era universale, sta cambiando qualcosa?
FR: Ho voluto utilizzare gli oggetti di tutti i giorni, quelli che avevo più vicini fisicamente. In Rotti c’è effettivamente un ritmo diverso e uno sguardo sul vissuto quotidiano; però, fondamentalmente ho cercato oggetti ai quali potessi conferire una sorta di universalità. Inoltre, mentre prima le figure erano sempre ai margini dell’immagine, qui i soggetti sono sempre centrali. In questo caso è il loro valore di partenza — in quanto scarti, oggetti rotti — a essere marginale.
FMN: Ogni lavoro è formalmente impeccabile. Credi che abbia ancora senso parlare di forma oggi?
FR: Sì, direi di sì, non vedo la forma come qualcosa di necessariamente superato o una limitazione alla percezione, dipende dalle circostanze. La mia indagine ruota tutt’attorno al concetto di “visivo”. C’è l’esigenza di lasciare le mie tracce il meno possibile e conferire una specie di anonimato alle immagini. Si tratta di un approccio più analitico. È un tentativo di far lavorare la vista di chi guarda in modo che possa ricostruire l’immagine e farsi una propria idea, più che offrire una mia suggestione.
FMN: Le tue immagini sono sempre molto pulite. La visione è essenziale, ridotta a un singolo oggetto o particolare, ma nella realtà è ormai impossibile che ciò accada. Cosa pensi del bombardamento visivo cui siamo continuamente sottoposti? Ti spaventa?
FR: Io non credo che sia impossibile, penso sia più una questione di abitudini su come si guarda e su cosa si sceglie di guardare. Spaventoso piuttosto è il condizionamento visivo cui siamo sottoposti, si tratta di un’imposizione sconcertante in cui spesso, non solo l’osservazione, ma anche l’immaginazione è pilotata. Temo la passività dello sguardo cui siamo indotti. L’essenzialità mi è funzionale, è il mio “vertice osservativo”. Nelle mie immagini c’è solo il necessario e spero che questo crei un certo sconcerto. Cerco solo di offrire un’alternativa che intorno non percepisco molto.