Maria Rosa Sossai: La scultura, così come gli altri mezzi artistici, da tempo non è più un linguaggio analizzabile lungo un asse storico ed evolutivo, ma si situa su un piano orizzontale, all’interno di categorie critiche instabili. Percepisci questa precarietà quando realizzi un’opera?
Francesco Arena: Quando inizio a riflettere su una nuova opera e vado avanti con la sua progettazione, sino alla vera e propria realizzazione manuale, penso sempre a una scultura, anche se poi, una volta installata, può essere percepita come qualcos’altro. Tutte le volte immagino di fare sculture, magari di spazi o di oggetti, ma mai visibili come sono in origine.
MRS: La tua ricerca mi sembra esemplifichi in modo efficace l’erosione della specificità dei mezzi artistici e la presa di distanza dalla tradizione del ready made. Le tue sculture sono costruite in modo artigianale ed è evidente la loro prossimità con il design (La pozza, 2004) o con il soggetto religioso, già presente nei primi lavori, come per esempio Cappella oscillante (2003) e Alle 8 di sera (2003). Di che natura è il tuo legame con la scultura?
FA: La scultura ci ha abituato a uno spettro amplissimo di linguaggi, sia nel caso di sculture di piccole dimensioni, che ricordano gli oggetti con i quali viviamo ogni giorno, o di sculture di dimensioni monumentali, in grado di diventare architetture, caratterizzate da un design unico e originale. L’aspetto artigianale nel mio lavoro è fondamentale, per me è molto importante che ogni dettaglio dell’opera venga realizzato in modo tale da essere funzionale all’intero intervento, specialmente se deve “funzionare”, ovvero adempiere a un dato movimento. Questo è il caso di Cappella oscillante, che è stata pensata adattando il meccanismo di pesi di un gioco per bambini per la riproduzione in scala 1:1 di una piccola cappella votiva montata su una sfera di metallo e vetroresina, meccanismo che le consente di oscillare senza mai cadere. Nel lavoro La pozza ho posto all’interno della base di un divano capovolto la scultura di una pozzanghera, che per me è uno squarcio di paesaggio incastrato all’interno di un elemento d’arredamento. Alle 8 di sera è un velo della Madonna completo di aureola, realizzato utilizzando il procedimento classico della cartapesta leccese, dipinto con colori a olio e appeso a un appendiabiti; immagino che di sera, quando finisce l’ultima messa e chiudono le chiese, le statue dei santi scendano dagli altari e si spoglino dei loro abiti, appendendoli in sacrestia.
MRS: Altre opere ricordano eventi politici e religiosi che si sono depositati nella memoria collettiva italiana. 3,24 mq (2004) e Strumento (2005) attestano la capacità dell’arte di radicarsi nella realtà e di entrare in relazione anche con altre discipline, come l’architettura. Come concepisci il rapporto con lo spazio?
FA: L’opera esiste nello spazio ma al tempo stesso lo contiene e anche se normalmente non progetto pensando a un luogo specifico, credo che ogni opera sia concepita per uno spazio ideale. Lo spazio può influenzare l’opera e la sua lettura, sia da un punto di vista fisico che emozionale. Un’opera esposta in un luogo già di per sé “significativo”, inevitabilmente ne assorbe la Storia e il suo valore ne viene a sua volta ridefinito, perché sono convinto che i luoghi nei quali sono avvenuti fatti ed eventi ricchi di significato sprigionino energia e forza. Proprio elaborando quest’idea di influenze reciproche, ho realizzato 3,24 mq e Strumento. 3,24 mq è una cassa di legno di 270 x 120 x 250 cm, all’interno della quale sono ricavate due stanze, una più piccola che funge da ingresso e dalla quale si accede alla seconda stanza, priva di qualsiasi apertura verso l’esterno. Questi spazi sono la ricostruzione in scala 1:1 del presunto luogo dove fu tenuto prigioniero lo statista Aldo Moro. L’idea è quella di rendere reale e percepibile fisicamente uno spazio denso di avvenimenti fondamentali per la Storia recente del nostro Paese. Mentre con Strumento ho voluto costruire una macchina che fosse uno strumento musicale, simile a un pianoforte. Ha una tastiera composta da sette tasti di varie forme e dimensioni e un sistema elettrico che mette in funzione dei martelletti i quali, battendo su delle teche di vetro, creano dei “suoni”. Le teche poste nella cassa dello strumento sono sei e ognuna di esse contiene dei mobili, un letto, un comodino, un tavolo, una poltrona, un paio di sandali e un tavolino inclinabile, che riproducono l’arredamento della cella di San Pio da Pietralcina, così come è conservato nel convento di San Giovanni Rotondo. Ogni martelletto, battendo sulla propria teca di riferimento, emette un suono diverso dagli altri, che cambia a seconda della grandezza della teca e del suo contenuto. Il suono viene amplificato dalle teche chiuse in una cassa di legno, visibili solo dall’alto, che permettono al suono di crescere e di propagarsi in un’unica direzione.
MRS: Da dove ha origine la tua passione per le macchine che producono suono?
FA: Da un interesse più vasto nei confronti di meccanismi capaci di generare qualcosa che non abbia necessariamente un’utilità immediata o evidente. Ho progettato una grande smerigliatrice che, consumando un pilastro di ferro, produce delle scintille più o meno lunghe, come fossero il punto e la linea del codice Morse. Simulo un processo in cui immagino qualcuno leggere i testi che ha scritto utilizzando un computer, che a sua volta li rielabora trasferendo i comandi alla smerigliatrice.
MRS: Una delle opere più recenti, Impannellamento (2006), ha un riferimento diretto alla scultura minimalista, pur ricollegandosi alle tradizioni religiose del nostro Paese. Come si integrano questi due aspetti apparentemente distanti tra loro?
FA: Sono attratto dalla scultura minimalista per la sua capacità di confrontarsi con il corpo del fruitore e di contrapporre la propria dimensione a quella di chi guarda, rapportandola allo spazio in cui l’opera è installata e modificando di conseguenza la nostra percezione, sia che si tratti della sala di un museo o di qualsiasi altro luogo. Le luminarie sono architetture effimere e nomadi che vagano da una festa patronale all’altra e che cambiano l’aspetto del paese, anche se solo per pochi giorni, riempiendo le strade di archi di trionfo, di altissime colonne e di facciate di edifici inesistenti. In Impannellamento ho voluto che una scultura minimalista contenesse al suo interno le tradizioni religiose locali. Così due grandi pannelli di multistrato di pioppo imbullonati tra di loro diventano una teca, la quale custodisce e in parte occulta una luminaria stradale, l’immagine di un arco di legno pieno di luci che è comunque visibile attraverso uno stretto corridoio, attraversabile solo da uno sguardo trasversale. Durante la festa l’arco di luce segna un nuovo varco, un punto di passaggio: è l’insegna con la quale la fede si mischia alla credenza e il rito religioso sfuma in rito pagano.
MRS: La tua ricerca mi sembra un esempio interessante di come sia possibile coniugare lo stile internazionale dell’arte contemporanea con le radici della propria cultura.
FA: Il territorio e gli spazi che ci circondano sono filtri attraverso cui percepiamo il mondo e spesso ciò che a prima vista può apparire un riferimento locale, in realtà è un sistema di valori condivisibile con chi appartiene ad altre culture, molto più di quanto si possa pensare, altrimenti non si spiegherebbe il successo di artisti così lontani dalla nostra cultura, sudamericani, asiatici o norvegesi. Proviamo interesse nei loro confronti perché attraverso il loro linguaggio artistico si avvera quello che il filosofo Umberto Curi chiama “un graduale processo di riconoscimento incrociato, ovvero riconosciamo aspetti costitutivi e ineliminabili della condizione umana in quanto tale”, filtrati però da uno sguardo diverso. In fin dei conti, a pensarci bene, anche se nasciamo in angoli opposti del pianeta e crediamo o meno in divinità diverse, tutti noi viviamo, ci innamoriamo, ci arrabbiamo, spesso ci ammaliamo e infine muoriamo. Condividiamo la stessa condizione esistenziale e ragioniamo pressappoco sulle stesse cose.