Dieter Roelstraete: Mi piacerebbe cominciare con una domanda riguardante uno dei tuoi temi ricorrenti: l’autoritratto, che ovviamente ha di per sé una venerabile tradizione artistica. Prima di addentrarci nella questione dell’autoritratto come “oggetto di contestazione”, parlami ancora un po’ della genealogia in questo particolare tropo. Come, quando e perché hai “deciso” che l’autoritratto faceva al caso tuo? Cosa ti ha spinto a investire in questa particolare tradizione, che è stata naturalmente oggetto di approfondite valutazioni durante tutto il ventesimo secolo e che ha visto un lungo e lento attacco ai concetti consolidati di identità e soggettività?
Francesco Gennari: L’opera che sia temporalmente che concettualmente faccio risalire all’inizio del mio percorso è costituita da un foglio di carta bianco con su scritto “Io sono Francesco Gennari”: così mi sono presentato al mondo, mi sono presentato a me stesso e mi sono posto al centro della mia attenzione. Ho sempre dedicato molto tempo all’analisi di me stesso e della mia identità, alla comprensione dei miei repentini cambiamenti di stato d’animo e delle mie emozioni; sono sempre stato attratto non dai sentimenti ma dal capire perché li provavo, non dalla mia camicia bianca ma dal perché quella mattina l’avevo scelta. Avendo tutto ciò come presupposto, è stato naturale produrre successivamente autoritratti. Penso in effetti di essere Francesco Gennari, ma penso anche che Francesco Gennari sia tante cose che spesso si contraddicono tra loro e altrettanto spesso sono incomprensibili e fuori dalla mia volontà; io sono in continuo cambiamento ed è per questo che, non senza sofferenza, ho rinunciato alla comprensione e alla rappresentazione unitaria di me e mi sono concentrato sui dettagli; ogni dettaglio esprime una specifica concezione di me stesso in un determinato momento, è come se scattassi fotografie della mia identità che risultano ogni volta diverse. Ora non mi rappresenterei tondo e verde come quella mattina di sette anni fa quando progettai l’Autoritratto con menta, ora mi vedo in modo diverso e so che tra qualche minuto la mia visione cambierà ancora, cambierà la geometria, il colore o il materiale che la mia sensibilità ritiene intuitivamente più opportuno al fine della mia auto-rappresentazione.
DR: La domanda comunque rimane su come io, spettatore che non conosce la tua storia di vita, deve rapportarsi o in qualche modo sentirsi legato all’io che è l’artista Francesco Gennari. Voglio dire — per fare un po’ l’avvocato del diavolo — perché dovrei curarmi di te, anche se quel tu è dichiaratamente un generico universale “uomo qualunque”? Sei tu quel generico universale uomo qualunque? Il nome “Francesco Gennari” nella precedente descrizione del tuo lavoro potrebbe essere sostituito praticamente da qualsiasi altro nome? Suppongo che qui mi interessi scoprire dove ti collochi rispetto a quello che Hal Foster ha chiamato la “fallacia espressiva” … Perché io stesso sono spesso molto sospettoso della retorica di espressione e delle nozioni di individualità che l’accompagnano.
FG: Tu non devi curarti di me, bensì delle mie opere! Non ho mai apprezzato quelle opere che necessitano di lunghi racconti e penso che la visione dell’opera, i materiali che la compongono, il suo titolo, debbano essere sufficienti affinché l’opera viva in autonomia, senza l’ausilio dell’autore o del critico; se ciò non avviene è un problema. Altrettanto vero è che spesso dalla mia quotidianità nasce l’intuizione che in primo luogo riguarda me e in un secondo momento tutti — se è vero che mi sono ritratto come rotazione della Terra utilizzando il mio perimetro e i colori con cui il Sole, nelle varie ore della giornata, dipinge il mio corpo, altrettanto vero è che ho inserito nell’opera due elementi del mio quotidiano ovvero la marca delle mie scarpe e il tipo di cappotto che abitualmente indosso… La questione sta nel fatto che quel Sole colora il corpo di tutti e quindi la mia opera è superficialmente autobiografica ma sostanzialmente assoluta e oggettiva. Anche quando scelgo tre colori per presentarmi al mondo la mattina parlo di me, ma tutti si svegliano la mattina con uno stato d’animo diverso rispetto alla mattina precedente. Non mi interessa né il sociale né la quotidianità come estetica fine a se stessa, mi interessa parlare della struttura primaria dell’essere e di come un uomo si relaziona all’oggettività del mondo che lo circonda: il cielo stellato, la rotazione della terra, l’entropia, la morte, ma anche gli inspiegabili mutamenti della propria emotività. L’arte produce cultura ma la cultura non produce l’arte, e quindi rifuggo da teorie o intellettualismi e preferisco concentrare la mia attenzione su quegli enigmi reali che vivo in quanto essere umano. Alla retorica ho sempre anteposto la brutalità dell’intuizione, che la ragione cerca poi di comprendere con risultati sempre modesti. È sicuramente vero che all’origine delle mie opere c’è il mio vivere ma è altrettanto vero che la mia sensibilità soggettiva si confronta con la materia, con tutta la materia che il mondo può darmi, e genera infine una visione autonoma che è l’opera d’arte.
DR: Questo ci fornisce un ottimo spunto in una considerazione più profonda delle tue scelte di materiali — la questione della materia, per così dire. Gin, marmo, menta, vetro di murano, buccia d’arancia, terracotta… Per non parlare di quegli ingredienti magici sfuggenti come il “cielo stellato” e la “notte”… Ci puoi parlare un po’ della logica che sta alla base di queste scelte? Per esempio, come finiscono/si spiegano nelle equazioni del tuo lavoro i prodotti alimentari e i materiali organici, e come questi elementi “poveri” — immagino a questo punto venga fuori la domanda sul tuo debito nei confronti dell’Arte Povera, se tale debito esiste davvero — si rapportano ai materiali preziosi, per esempio. Il che ci conduce nel terreno oscuro del rapporto allegorico dell’arte con l’alchimia e la magia in un senso più generale… Che ne pensi?
FG: Nelle mie opere parlare di concetto e materiale è praticamente la stessa cosa, essi si intrecciano in modo irreversibile e ognuno sostiene e determina la scelta dell’altro. A volte è il materiale che mi suggerisce il concetto che sosterrà l’opera, altre volte un concetto trova il suo compimento solo quando è sostenuto da un determinato materiale. Difficile stabilire un ordine cronologico o una genesi di come questa unione avvenga, però avviene, e io me ne accorgo subito, penso che possa essere spiegato solo con un atteggiamento intuitivo. Ora vorrei fare qualche esempio pratico: la scultura Un istante dopo (liscio o con una scorza d’arancia) è il mio autoritratto sotto forma di gin subito dopo la morte, quando la parte alcolica del gin, lo spirito, evapora verso il cielo; questo momento drammatico è anche il nome di un cocktail a base di gin e condito con una scorza d’arancia che non a caso è arancione come un sole che volge verso il tramonto. Allora come vedi il gin e la scorza non hanno una rilevanza formale bensì concettuale: nel loro essere c’è già il concetto dell’opera (l’ascesa dello spirito e il tramonto della vita terrena) ed è per questo che poi le mie spiegazioni successive sono superflue. Potrei fare altri esempi, ma ciò a cui tengo è che solo quando il materiale porta con se il concetto l’opera non è formale, i materiali hanno un’anima e tutto ha un equilibrio inspiegabile ma percepibile. Come potrei parlare di Tre colori per presentarmi al mondo, la mattina e poi fare una scultura che non ha il colore come sua verità primaria bensì come apparenza magari generata da una verniciatura o trattamento superficiale? E ancora, parlare dei miei sentimenti che cambiano e nascondere sotto la superficie d’argento tre metalli di uguale colore e peso? La materia è concetto. Alla luce di questo guardo il mondo e la materia di cui è fatto senza ideologie e senza preconcetti, lo guardo con l’atteggiamento avido di chi ha bisogno di nutrirsi di materiali per esistere. Uso materiali di ogni genere, dall’oro alla terra, dai coleotteri allo sciroppo di amarena, dalla panna al gin, li uso a volte nella loro naturale opacità e altre volte li lavoro, li lucido fino a renderli scintillanti. Penso che il mio debito sia verso il mondo e che la mia estetica sia di conseguenza variegata e contraddittoria come la realtà che mi circonda, è difficile classificarmi perché faccio una cosa e contemporaneamente anche il suo contrario e perché la mia libertà è totale e quindi sfuggente alla ragione. Sì, siamo nel terreno oscuro di cui tu parli, è un terreno imprevedibile e pieno di sorprese anche per l’autore, creo immagini e uso materiali per ottenere un risultato e un significato secondario e superiore rispetto a ciò che appare; a volte mi accorgo di aver fatto qualcosa di diverso dal mio intento iniziale e quindi l’opera diviene una sovrapposizione di allegorie anche inconsapevoli. La trasformazione del materiale attraverso il significato allegorico che gli si può attribuire crea sicuramente un processo alchemico.
DR: Hai già citato la buccia d’arancia che evoca il colore del sole al tramonto, così come un lavoro dal titolo Tre colori per presentarmi al mondo la mattina. Oltre alle allusioni alchemiche nel tuo lavoro, c’è sicuramente anche una dimensione cosmica — pensa ai tuoi autoritratti come eclissi solari o come parte di un paesaggio notturno. C’è qualcosa di decisamente vecchio stile, direi, di quella retorica cosmologica in particolare che sembra in linea con gli antichi sogni romantici di perdute (e irrecuperabili) totalità — l’artista come profeta, demiurgo, essere cosmico. Condividi il registro romantico? Oppure non ci hai mai dato troppo peso? E in quale misura, in linea generale, pensi che la tua pratica sia coinvolta in un dialogo ultrastorico con concezioni artistiche del passato (come, in questo caso, il Romanticismo)?
FG: Perdute e irrecuperabili totalità, profeta, demiurgo, essere cosmico: sono tutte cose a me molto vicine e comprendo anche come le mie opere possano suggerirle all’osservatore, ma allo stesso tempo non ho mai pensato al Romanticismo e non ho mai cercato un dialogo ultrastorico con concezioni artistiche del passato. Quello che esprimo è solo il prodotto di quello che sono. Il mio obbiettivo è quello di essere uguale a me stesso senza compromessi.
DR: E questo Io, fortunatamente a sufficienza, ha anche una chiara (anche se non necessariamente scontata) capacità di auto-relativizzazione: una vena ironica sembra scorrere attraverso la retorica piuttosto solenne dell’artista come forza cosmica e demiurgica che, almeno, è come lo si vede. Infatti, il tuo lavoro non è privo di una sana dose di umorismo. Cosa ne pensi di questa valutazione?
FG: Ho difficoltà a dare una risposta netta a queste tue considerazioni. Il mio lavoro porta con sé un atteggiamento variegato e contraddittorio: spesso dietro il sorriso si nasconde il dramma e viceversa, spesso il cortocircuito che si genera tra la concettualità dell’opera e i materiali utilizzati crea ambiguità. Una lumaca che viene capovolta e fissata su un ciuffo di panna e lì rimane fino alla morte è un immagine ironica? È drammatica? Vorrei collocare quest’opera così come tutta la mia ricerca in un territorio ambiguo dove i sentimenti umani si contaminano, dove accanto a ogni emozione si trova anche il suo contrario e dove la parte alta dell’uomo si intreccia con quella più bassa. Il mio lavoro è una sintesi irrazionale di sentimenti contraddittori.