“Contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro.”1 La mostra di Francesco João a Roma inaugura pochi giorni prima della scomparsa del grande antropologo e filosofo francese Marc Augé, noto per aver coniato già nel 1992 il concetto imperituro di “non luogo”. In Rovine e macerie l’autore delega alle vestigia l’intuizione dell’esistenza di un tempo altro rispetto a quello ricucito dai manuali di storia o quello riesumato dai restauri. Un tempo autentico, privo di riferimenti specifici, lontano dalle pretese di ricostruzione imposte dall’uomo contemporaneo. Se il nostro mondo violento produce solo macerie che non hanno più il tempo di diventare rovine, spiega lo stesso Augé, l’arte è d’altronde in grado di ritrovare e rendere visibile questo tempo sospeso fornendo nuovi punti di vista non più esclusivamente logico-consequenziali, ma esistenziali.
Il lavoro di João si inserisce perfettamente in questo solco assecondandone l’intuizione, incarnando dunque quel tempo dilatato e diacronico espresso nel saggio.
La prima sala espositiva mostra una serie di oggetti trovati o di proprietà dell’artista, installazioni e sculture ready-made che, come indizi precari, illustrano una storia originale e arbitraria dell’evoluzione umana: dal braciere primordiale di pietre fluviali e legni appena arsi(Untitled (fire), 2023), al segno materico dell’argilla sulla tela grezza che accoglie stralci di impronte intenzionali (Untitled, 2023), dallo strumento di paglia intrecciata per la lavorazione della mandioca proveniente dall’Amazzonia, regalo d’infanzia della madre (Untitled(tipiti), 2023), al manufatto in bronzo, due grossi ovali e un largo sorriso falciforme, moderno emoticon precipitato in tre frammenti scomposti(Untitled (smile), 2023). Infine, un reperto proveniente dal futuro remoto, una console da gioco prodotta da SEGA alla fine degli anni Novanta – talmente evoluta per l’epoca da decretarne il suo stesso fallimento – che giace su un piedistallo di larice come un oggetto di design muto, un desiderio reso orfano (Untitled (Dreamcast), 2023).
Seven Segment Display, da cui il titolo della mostra, è un sistema modulare digitale costituito da sette segmenti luminosi disposti a rettangolo verticale che, attraverso l’accensione combinata, generano l’immagine di una cifra numerica. Sebbene brevettato nel primo decennio del secolo scorso, il suo impiego diventa comune solo negli anni Settanta con l’avvento dei LED.
Francesco João recupera questo font tecnologico primitivo per raccontare attraverso il linguaggio pittorico la percezione che il passato ha avuto del futuro. Fluttuano sulle pareti della seconda grande sala affrescata dieci piccole tele trenta per quarantacinque centimetri (Untitled, 2023): schermi sul cui fondo monocromo, dal rosa antico al rosa pallido, dal rosso acceso al verde salvia, affiora un unico soggetto, le quattro strutture dei Seven Segment Dispaly. Un tema su cui l’artista lavora dal 2016 e che espone qui per la prima volta in sequenza. Come stazioni emotive una diversa dall’altra, i display a quattro zeri, spenti oppure accesi, proiettano la fiducia di allora sull’avvenire tecnologico. Spiega João: “Tutti i lavori riflettono, attraverso modalità e forme diverse, sulla relazione tra trascendenza ed economia. Sull’evoluzione dell’opera d’arte da oggetto funzionale, a spirituale, a contemplativo, a speculativo, ecc.”
Il desiderio di controllo nella stesura e nella reiterazione del soggetto sembra ricordare la medesima ossessione esistenziale che nel gennaio 1966 spinse l’artista giapponese On Kawara a elaborare il primo dei suoi celebri “Date Paintings”, della serie “Today”. Una pittura metacognitiva che riflette sul mezzo stesso.
Prosegue l’artista: “Volevo che da lontano la superficie risultasse abbastanza definita, un po’ flat, mentre da vicino lasciasse intravedere i molti strati di vernice di vari colori che compongono la pittura, in modo da riconoscere tutti gli errori, le imperfezioni tridimensionali e le stratificazioni con cui è costruita.” La pratica di João si alimenta dell’ambivalenza del metodo pittorico, tra l’immediatezza e l’eccessiva complessità, tra il valore estetico dell’opera d’arte e il valore oggettuale in grado di condizionare l’economia intorno a sé.
È dunque il tempo puro, il tempo perduto di cui parlava Augé, che l’artista è in grado di ritrovare, perché si tratta di un “tempo senza storia, di cui solo l’individuo può prendere coscienza”.2