Massimiliano Gioni: Soubrette, starlette, vecchie icone e attori famosi. Come si arriva a Helmut Berger? Come lo si convince a recitare in un video in cui gioca a fare Joan Collins e finisce per baciare Francesco Vezzoli?
Francesco Vezzoli: Alcune persone le ho avvicinate senza preavviso. Carlo di Palma, per esempio, l’ho sorpreso in un ristorante dove sapevo che andava spesso: buongiorno, sono Francesco Vezzoli, per me lei è l’uomo che ha fotografato tutti i film più belli della Storia, vorrei fare un progetto con lei. Ha funzionato. Per Helmut Berger ho avuto il suo numero di telefono da una persona e l’ho chiamato. Poi mi sono presentato a casa sua con centocinquanta lilium bianchi. Lui non aveva nemmeno un vaso, li ha messi nella vasca e mi ha detto, lei che cazzo vuole da me? E io a spiegargli che, sa, io ho fatto interpretare Edith Piaf da Marisa Berenson, e se lei magari, Mr. Berger, potesse ricamare la faccia di Querelle de Brest, poi baciarmi mentre recitiamo una scena di Dinasty... beh, sarebbe divertente, no? E ha funzionato di nuovo.
Helena Kontova: Come scegli i personaggi con cui lavorare?
FV: Helmut Berger è stato un punto di arrivo, un climax. Ero partito da Gruppo di famiglia in un interno di Visconti, che in qualche modo aveva ispirato il mio primo video, Ok! The Praz is Right. Mario Praz ricamava, Silvana Mangano ricamava, avevo scoperto che anche la sceneggiatrice di Visconti ricamava. Da quelle immagini usciva una specie di storia trasversale di Luchino Visconti, e la figura vivente che è stata più legata a Visconti era Helmut Berger. Berger non è stato solo l’amante di Visconti, è stato la sua diva.
HK: È curioso il continuo rincorrersi di cinema e ricamo. Che rapporto c’è tra questi due mondi?
FV: Il rapporto tra cinema e ricamo è forse la cosa più affascinante che ho scoperto nel mio lavoro. I miei video sono una specie di enciclopedia parallela della storia del cinema: basta fare un po’ di ricerca nelle vite private delle star e ti accorgi che il ricamo è la controparte privata del divismo. Molte star hanno trovato nel ricamo uno spazio privato e meditativo. Silvana Mangano, che è stata la diva italiana più grande, algida, perfetta, riservata, ricamava tappeti a tinta unita, come se le bastasse la sola azione ossessiva del ricamo, senza nemmeno sentire il bisogno di disegnare qualcosa.
HK: Tu quanto tempo dedichi al ricamo?
FV: Tre ore al giorno, più o meno.
MG: Hai sempre ricamato?
FV: Le prime opere erano ricami. Studiavo Fine Arts a Londra e a un certo punto ti dicono “You gotta come up with something”, ti devi inventare qualcosa. Io odiavo stare a scuola e il ricamo all’inizio non era nemmeno una scelta stilistica ma un modo per starmene in pace. Naturalmente significava anche realizzare opere piccole che potevo trasportare ovunque.
HK: Ma il ricamo è un’attività tradizionalmente considerata femminile.
FV: Sì, le donne sono ricamatrici quasi per definizione perché sono le depositarie di un mondo di sentimenti che viene diluito nel ricamo. C’è molto dolore nel ricamo: Penelope ricamava mentre aspettava Ulisse. Ma poi ci sono gli snob, i wannabes: se studi la storia del ricamo scopri che Valentino ricama, Edward VIII e Wally Simpson ricamavano entrambi. Nella storia dell’arte, invece, si inciampa in una lunga serie di signore ricamatrici, spesso sposate a personaggi piuttosto ossessivi: la moglie di Josef Albers, Sonia Delaunay, la moglie di Savinio…
HK: Ti piace di più ricamare o girare video?
FV: Sono due passioni che si bilanciano. Vincent Minnelli era un grandissimo ricamatore ma è stato anche un grandissimo regista. Se devo trovare una definizione, voglio essere un regista ricamatore, anche perché nella storia del cinema il ricamo serve a tirare i fili di quello che è già stato fatto, per tenere insieme immagini e personaggi diversi e dar loro una nuova forma.
MG: Il ricamo è anche una pratica smaccatamente gay: ti interessa anche questo aspetto, di queer identity, come dicono gli americani?
FV: No, per carità. Voglio solo essere una parodia dello snob. Io non sono uno snob: inseguo le persone, le chiamo, cerco di farle entrare nella mia vita, anche solo per un attimo. Per me il ricamo è soprattutto una passione, una duplice ossessione: da una parte c’è il movimento ripetitivo e maniacale delle star che ricamano; dall’altra c’è la mia ossessione, il tentativo di comporre una storia del cinema che passa attraverso il ricamo.
MG: E poi c’è l’ossessione del fan che perseguita le star.
FV: Sì, io sono un fan che invece di chiedere un autografo chiede un cammeo, una piccola performance.
MG: Ma la tua è anche la parodia dell’arrampicatore sociale, quello che vuole andare a tutte le feste giuste.
FV: Non penso. Non ho mai pensato ai video come a una scusa per diventare amico di Helmut Berger. È pur sempre un discorso interno all’arte: ti guardi in giro e ti chiedi cosa manca. A me sembrava mancasse Helmut Berger: in tutte le mostre e in tutte le opere che vedevo mi sembrava mancasse questo sentimento melodrammatico. Per fare un gioco di parole, volevo fare dell’arte ricca: metterci studio, rigore, anche scientifico, e arrivare a un’opera che avesse la ricchezza visiva di un melodramma, infarcito di citazioni e ridondante di dettagli eruditi. È anche un modo per essere più sincero: più sincero con me stesso, perché sono cresciuto in un mondo di nonne melodrammatiche con i capelli tutti gonfi; e più sincero con ciò che mi circonda, perché sui giornali e nei negozi vedi solo oggetti di lusso e poi vai a una mostra e non c’è traccia di quell’opulenza che sembra permeare il nostro immaginario.
HK: Chi è il tuo stilista preferito?
FV: Ho una devozione per Yves Saint Laurent, se potessi rinascere vorrei reincarnarmi in lui. Poi, certo, Capucci, le Fendi, Valentino, che hanno realizzato i costumi per i miei video.
HK: Ma tu che vestiti porti di solito?
FV: Mi vesto cercando di piacere agli altri. Se mi vestissi come piace a me sarei al massimo della sofisticazione, ma non mi filerebbe nessuno.
HK: E a te cosa piace degli altri?
FV: Il coraggio e il senso delle proporzioni rispetto al proprio corpo. Oppure mi affascina terribilmente — ed è una mia debolezza — il fascino dell’anonimato, che però oggi è un rischio, perché più sei trasparente e più sei solo.
HK: Sei vegetariano?
FV: Sì, ma solo se non dà fastidio: se devo andare a cena con una signora di sessant’anni che magari mi presenta Helmut Berger, allora non sono vegetariano, per non fare una scenata.
HK: E quando incontri questi personaggi come ti senti? Intimorito? Incuriosito?
FV: Incuriosito sempre, ma non intimorito, sono comunque un outsider: non voglio essere ricco come il padrone di casa o bello come l’attrice. Il mio resta uno studio, uno sguardo da dietro la porta. Magari per un momento ti sembra di vivere un sogno ma deve durare solo un attimo per poter essere intenso. Ed è tanto più forte quanto più riesci a mantenere un certo distacco da vero studioso. Poi ci sono i momenti di debolezza: persino Mario Praz, quando gli chiesero quale fosse il suo più grande rammarico, diceva che gli dispiaceva terribilmente che sua madre fosse già morta quando Margaret d’Inghilterra aveva visitato la sua casa romana. Ecco, questi brevi momenti di debolezza sociale, che colpiscono anche le persone più potenti, mi mandano in una specie di deliquio.
HK: Cosa vorresti si dicesse dei tuoi lavori?
FV: Se si potessero usare tutte le parole giuste al posto giusto, direi che il mio lavoro è questo studio sulle debolezze del frocetto di provincia, che si guarda i film di Visconti, si studia i mobili di antiquariato e trasforma la propria solitudine e il proprio dolore in una magnifica ossessione.