Francesco Stocchi: Vorrei capire meglio il tuo approccio alla curatela. Per quanto mi riguarda, diverse volte mi sono affidato alla curatela di artisti, è accaduto quando percepivo che non avrei potuto osare lì dove avrei voluto, quando non potevo innescare dei meccanismi che in quanto curatore non sarebbero stati accettati. Invitando un artista, discutendone insieme, si acquisiva una maggiore libertà operativa e di linguaggio espressivo, si è riusciti così a costruire intorno a certe opere un significato altro, farle respirare insomma. E allora la prima curiosità che ho a riguardo è: tu come la vedi? Quando operi in termini di scelta e di organizzazione nello spazio rispetto a un’opera.
Francesco Vezzoli: Nella mia scelta di essere curatore non c’è un motivo nobile né un motivo ignobile. Ho grandissimo rispetto e ammirazione per il ruolo del curatore e non ho mai pensato di potermi sostituire né di potere avere un approccio migliore per il mio lavoro. In realtà, in questi progetti più che curatore mi sento un po’ producer, forse perché vivo molto male questo periodo storico del sistema dell’arte.
Trovo esista un grande equivoco quando molte persone parlano del mondo dell’arte e non si rendono conto che invece parlano del mercato dell’arte. Ho cercato quindi di immaginare un luogo della mia professione dove io potessi continuare a pensare liberamente, ho voluto creare delle situazioni che mi permettessero di lasciare da parte il “mercato” che, in questo momento, onestamente richiede all’artista di pensare meno. Non sono necessariamente un esperto da un punto di vista storiografico, men che meno archeologico e non voglio appropriarmi di conoscenze che non sono le mie. Per capirci, troverei più interessante andare ad Art Basel e allestire una sala di opere di Carla Accardi, piuttosto che portare una mia scultura in un booth importante. Non avrei dubbi. E mi divertirei molto di più. Tra l’altro, non penserei mai che sto facendo il curatore di Carla Accardi, perché la starei interpretando, esercitando un gesto più che altro artistico.
FS: Infatti parlando del tuo ultimo progetto a Palazzo delle Esposizioni, “VITA DULCIS. Paura e desiderio nell’Impero Romano” in nessun modo ti poni come uno studioso, un esperto di arte antica.
FV: No, infatti. Non è mai stata una mia intenzione o un mio desiderio.
FS: È questo che mi interessa, ci sono vari aspetti. Innanzitutto, mi chiedo, ma la competenza scientifica è sempre e comunque un requisito necessario per un curatore? Dipende certo come la si affronta, perché ci sono ancora questioni ambigue e controverse che oggi girano intorno alla curatela. E questo lo rende interessante, una figura fluida che poi ognuno interpreta e sviluppa a modo suo. E allora mi sorgono certe domande, per esempio, una cosa bellissima che io sento che viene veicolata attraverso “VITA DULCIS” è anzitutto che si crea un filo conduttore di oggetti che possono essere così lontani nel tempo e che la storia della mostra crea uno stimolo nel seguire. Ma soprattutto la mostra che cosa fa? A mio modo di vedere, lascia nello spettatore un senso di sicurezza rispetto a una materia percepita distante, cosa che spesso mostre dall’approccio scientifico impeccabile, frutto di studi, non fanno e questo lo trovo fondamentale perché imprimere la sicurezza nel pubblico vuol dire stimolarlo ed entrare a far parte di un discorso continuativo oltre le due ore passate una domenica pomeriggio in un museo. Quindi il senso di sicurezza che cosa fa? Rende lo spettatore partecipe, attivo e non solamente lì a imparare, muto, quello che il museo gli trasmette. Quindi mi chiedo, il fatto che qualcosa piaccia, di getto, è meno prezioso o importante del fatto che questa cosa la si conosca?
FV: Nella cultura di oggi direi proprio di no. E, per quel che mi riguarda, non mi convince mai fino in fondo la conoscenza senza passione.
FS: Quindi mi chiedo, provocatoriamente, la competenza scientifica è un requisito sempre necessario per un curatore? A seconda delle operazioni certo, in questo caso parliamo di te come curatore o appunto producer, entrato insieme a Stéphane Verger in un dialogo operativo. Non è Vezzoli curatore punto. All’interno di un dialogo siete riusciti insieme a tirare fuori qualcosa che è una sorta di alchimia generale.
FV: Davvero, non ho alcun interesse a rientrare in questa o quella categoria, anche perché – in alcuni casi – non ne ho nemmeno la preparazione. Io racconto una mia narrativa; metto in scena una mia idea, una passione, se vuoi, un’ossessione… cerco complici o alleati che contribuiscano con la propria visione, e cerco di renderla condivisibile con chi ne farà esperienza. È molto bella quella cosa che hai detto della sicurezza. Sicuramente, io cerco di creare empatia, identificazione. Offrire una possibile risposta alla confusione che c’è fuori e che a me personalmente mette inquietudine.
FS: Ci sono episodi particolari che ti hanno riguardato che hanno fatto sì che questa insicurezza diventasse anche fastidio o diciamo repulsione?
FV: È un processo iniziato anni fa, quando vivevo all’estero. Viaggiando tra le varie capitali mi succedeva di notare sempre che i curatori italiani erano preparatissimi sui territori dove operavano, mentre avevo l’impressione che i curatori stranieri fossero sempre fortemente impreparati sulla storia italiana, sulla nostra cultura e, a volte, sui fatti e gli artisti che hanno una grande rilevanza all’interno della storia dell’arte – prima che diventasse storia del mercato. Il fastidio è nato quando è diventato sempre più evidente che erano loro a dettare e manipolare le regole del mondo dell’arte e del suo mercato.
FS: Potrebbe essere accettabile finché non si fa una crociata contro il colonialismo, su cui siamo certamente d’accordo, ma questa è una forma di colonizzazione.
FV: Esatto, ora sono ossessionati dalla decolonizzazione, anche della nostra cultura… Però di fatto continuano a dominare il mercato dell’arte. Ci fosse almeno un vero dibattito. Però la situazione è assurda più che mai: il mercato oggi assegna un valore di milioni di euro ad artisti anche giovanissimi e li fa valere, per esempio, più di Paolo Veronese, senza nemmeno sapere chi sia…
FS: Perché segue altre logiche che non sono quelle prettamente qualitative. Però dicevi: “Finché andava tutto bene…”. Poi che cosa è successo?
FV: Forse sono iniziate a mancare figure autentiche, professionali ma anche creative. Voglio dire, non è stato un artista Germano Celant quando teorizzò l’Arte Povera? È stato un grandissimo curatore, ma è stato anche un grande performer. Prima l’Arte Povera, poi si è spostato in America, si è avvicinato a Warhol, ha capito che la comunità LGBT era importante, quindi ha lavorato molto su Mapplethorpe facendo delle mostre bellissime, no? Io ammiro molto chi vuole sempre evolversi.
FS: Questa è la situazione e anche la tua è una reazione. Mi riferisco a “VITA DULCIS” e al discorso che hai fatto sul contesto internazionale. Parlando di statue romane una delle più grandi collezioni di Roma antica è quella dei Torlonia, esposta recentemente ai Capitolini. Aveva altre tre tappe fondamentali importantissime, una era a San Pietroburgo. C’è voluta la guerra per interromperla. L’altra al Louvre. Poi la National Gallery di Washington che, notizia recente, l’ha cancellata perché non si sentono di dare attenzione, spazio e importanza all’espressione di un white power, all’espressione di una cultura schiavista. Lo trovo interessante perché ci troviamo proprio in questo aspetto: tu elabori a Palazzo delle Esposizioni insieme a Verger una questione in chiave attuale, che piaccia o meno; e al tempo stesso la National Gallery di Washington rompe un patto per questioni di ipocrisia ideologica, con una delle più grandi collezioni di quel periodo. Hai spiegato i motivi che ti portano a questo esercizio e mi sono venute in mente delle celebri mostre di artisti come Richard Hamilton, che nel ’57 fece “an Exhibit” alla Hatton Gallery, Newcastle – un’espressione di curatela e procedura, distribuzione, partizione di forme, di spazi, di significati. E mi viene anche in mente un’altra mostra “Rolywholyover A Circus’ for Museum” del ’93 di John Cage che ebbe un approccio simile. Questo è un punto di riferimento, temi, non contenuti a cui ho pensato quando ho visto la tua mostra. Un altro aspetto, invece, è quello dello spazio del dubbio. Il dubbio che mette in discussione le finzioni dell’artista, chiamando finzioni quelli che possono essere i tuoi interventi, no? Quindi lo spazio del dubbio che mette in discussione l’intuizione dell’artista, del museo, come dello spettatore. E ovviamente penso al “Musée d’Art Moderne, Département des Aigles, Section des Figures” di Marcel Broodthaers (1972), che fece appunto un’operazione rivolta allo spettatore mettendo tutto radicalmente in dubbio. Ecco, questi sono due aspetti. Il terzo, e poi vorrei sentire il tuo parere, è ovviamente l’operazione che fece Warhol in quanto curatore al RISD Museum a Providence, nel Rhode Island: nel ’69 fece questa incredibile mostra intitolata “Raid the Icebox 1 with Andy Warhol”, che immagino conoscerai. Fu abbastanza straordinario, perché poi c’è proprio, a mio modo di vedere, l’apoteosi del rapporto tra Warhol e la sua passione per Duchamp. E in questo caso, sempre a mio modo di vedere, esce fuori al meglio. Fu una mostra organizzata grazie ai collezionisti Menil insieme a Robbins, che era il nuovo direttore del museo. Un museo per giovani però disastrato, non gestito come si sarebbe voluto. E c’era un doppio rapporto (come quello che trovo si è instaurato tra te e Palazzo delle Esposizioni) perché a Robbins faceva comodo invitare Warhol al RISD – in un momento in cui l’artista era, secondo me, un giocatore di ruolo; nel senso che Warhol poteva facilmente abitare il ruolo di curatore di un museo con la stessa facilità di un dandy, di un paparazzo, di un produttore di musica folk rock, di un artista. Riusciva in questo senso a adattarlo al suo ruolo e quindi a fare uscire anche il museo da una sua immagine accademica a favore di qualcosa di più contemporaneo. E invece dall’altra parte, Warhol ne era interessato perché era un ossessivo collezionista, uno che registrava, conservava, archiviava tutto, come sappiamo. Informazioni, oggetti, ricevute, era quello che aveva portato il design industriale nel regno delle arti. Quindi un’operazione di curatela dove Warhol ha iniziato a sovvertire tutte le collezioni, a radunare, portare sopra quello che c’era sotto, quindi a scuotere un po’ lo status quo, a scegliere come hai fatto tu con Verger. E qui arriviamo a Duchamp, quando Warhol trovò una riproduzione della Monna Lisa e iniziò a cercare altre copie, altri falsi o altre contraffazioni perdendo interesse per la cosa vera. Secondo me questo è un punto interessante dove il rapporto tra arte alta e bassa viene meno, perché si entra su un altro campo che non è più quello dell’autenticità, dell’origine ma un campo che ha delle istanze e delle letture molto contemporanee. Ho percepito la stessa direzione a Roma: quando si vuole perdere volutamente interesse per la cosa vera in favore di qualcos’altro.
FV: Mi sento lusingato perché tu nomini delle figure che per me sono assolute. Duchamp e Warhol… hai citato due artisti che, per me, in maniere completamente diverse erano sempre in un modo o nell’altro profondamente fuori dalle regole. Guardando a loro, seppur in maniera molto diversa, credo che la migliore definizione di artisticità sia l’incontenibilità. Che, a volte, dà dei frutti visibili a tutti, a volte invece dà dei risultati illeggibili. Però è sempre un detonatore, uno sblocco anche di situazioni ferme, ristagnanti. Penso sempre a quell’aneddoto su Warhol e a quel gruppo di collezionisti che lo ha abbandonato quando ha prodotto le Brillo Boxes (1964), perché non erano più opere bidimensionali e non erano neanche una vera scultura. Lui però se n’è fregato per fortuna ed è sempre andato dritto… E poi quando il mondo dell’arte l’ha scaricato si è messo a fare il giornale. Però chi studia la storia dell’arte sa che questo tipo di artisti, per esempio Christo – per citarne uno di una gravitazione socio intellettuale diversissima da Warhol – vanno sempre avanti comunque. Anche Christo era un artista che si curava da solo.
FS: Non ne aveva bisogno.
FV: Però non c’era arroganza, era il bello del suo essere incontenibile, anche quando gli Americani lo dimenticarono per più di vent’anni. Io stesso, come artista, non posso che esprimere il mio amore per chi è incontenibile. Quindi la mia dimensione di curatela nasce dalla necessità di ossigeno espressivo. E se non mi permetteranno più di realizzare progetti simili, farò altro.
FS: Trovo che a Palazzo delle Esposizioni tu hai spostato degli oggetti tra opere che avevano un valore e che non avevano bisogno dell’inquadratura di una galleria museale per essere trasformati in arte. La tua è più una sovversione curatoriale che ontologica. Non è che hai voluto conferire valore attraverso il gesto. Quello che trovo interessante è che in questa mostra non viene sfidata, a mio modo di vedere, la definizione di arte ma in realtà quella di valore e la politica del giudizio.
FV: Non potevi riassumere meglio in una frase tutto quello che io sento oggi.
FS: E tornerei alla sicurezza dello spettatore, perché mi è piaciuto che si siano spostati i riflettori da quello che i curatori e gli studiosi dei musei consideravano i pezzi migliori, a favore di quelli che sembrano avere un valore medio, o sono scientificamente meno interessanti, e i pezzi che magari erano stati acquisiti e poi non hanno trovato spazio espositivo – per quello parlo di sovversione curatoriale. E a questo proposito sono curioso di sapere qualcosa sul criterio di scelta. Mentre appunto Warhol diceva che “la Pop Art è apprezzare le cose” e quando andava nei grandi magazzini con il suo entourage gridava sempre: “Prendo questo, prendo quello!”, come una sorta di bambino, voleva tutto. Come si sono svolte le scelte tra te e Verger che invece è un conoscitore della materia, lui che viene proprio da quella scuola lì.
FV: È accaduto in modo simile: all’inizio, esaltato dalla vicinanza di tali capolavori, io avrei preso tutto e lui ovviamente mi guidava con la sua sapienza. Poi, ho iniziato pian piano a focalizzarmi sui reperti più “narrativi”, quelli – magari più rovinati o contaminati – che raccontavano i gesti, i sentimenti o le idee… come ad esempio le lapidi o gli uteri ex-voto… tutti quei pezzi che poi in una selezione “ufficiale” non passerebbero mai. Sono degli spaccati di vita dell’antica Roma, bellissimi, e che aiutano anche lo spettatore a capire l’approccio.
FS: Le categorie si sono formate man mano che trovavi o preventivamente?
FV: Siamo partiti con delle categorie di massima, che poi si sono evolute e definite con i pezzi che trovavamo… L’ultimo reperto lo abbiamo “scovato” quindici giorni prima di aprire la mostra… è questo busto acefalo di donna, molto piccolo, con le braccia conserte, come se si abbracciasse da sola… un’iconografia rarissima tra l’altro. Non era nemmeno archiviato ma l’ho voluto inserire assolutamente. Come dicevi, questa non è una mostra, ma una sfida alle dinamiche della cura interpretativa. È proprio un discorso sul valore dell’arte, che per me comincia quando vado alle aste in cerca di reperti.
FS: Questa mostra nello specifico lo è. Penso che invece “Casa Iolas. Citofonare Vezzoli” (2020-21) era più un omaggio a una figura per te e per molti importante; “TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai” (2017) sembrava invece qualcosa di più autobiografico, l’età adulta che non vuole arrivare. Sono progetti sempre in un modo o nell’altro legati. Sembra che ognuna di queste operazioni curatoriali o di produzione, come la chiami tu, abbia una diversa motivazione, un leitmotiv, un sottotesto diverso…
FV: Sì, hanno tutte una diversa motivazione che nasce da momenti e sensazioni differenti, però secondo me sono tutte collegate tra loro. Parlano di me che mi immedesimo nel mondo dell’arte che nuota in un mare in tormenta. E io cerco di aggrapparmi a ciò che amo della storia.
FS: Ma come non sai nuotare che ti muovi benissimo, anzi!
FV: Cerco. Io guardo questo mondo dell’arte che annaspa in tante confusioni diverse, in tante correnti diverse, una completamente opposta all’altra… e in qualche modo guardo alla storia senza nostalgia, cercando una risposta che mi dia un senso assoluto.
FS: Questo mi ricorda molto De Chirico.
FV: Lo cito ogni tre lavori che faccio e ho realizzato già due progetti che lo riguardano.
FS: Un’altra riflessione rispetto alla mostra: cosa ne è del mondo sofisticato e colto, diciamo dell’arte chiamata alta, e qui non parlo del mondo dell’arte in generale ma di una parte di esso, quella libera dalle ossessioni della fama dell’industria dello spettacolo. Perché questa mostra, secondo me, mette in cortocircuito delle cose, il che mi piace.
FV: Senza fare nomi… diciamo che dieci, venti, trenta grandi figure che fino a poco tempo fa non si sarebbero perse una fiera, una biennale, oggi non ci vanno più. La domanda è: continueranno a essere dei grandi player anche se non stanno al gioco, o forse ci stanno ancora di più?
FS: Hai una risposta?
FV: Non ce l’ho. Però vorrei menzionare questo enorme proliferare delle fondazioni private. Io credo che esistano perché queste persone, non trovando più risposte soddisfacenti intorno a loro, vogliono genuinamente fare il loro gesto narrativo, che assomiglia a un gesto artistico. Secondo me, non vogliono partecipare a una ritualità alla quale non sentono più di appartenere.
FS: Diciamo che la chiarezza di intenti è un grande valore, ma questi sono anche gli effetti dell’allargamento all’industria globale. Prima si giocava in pochi eletti o comunque era una cosa diversa. Devo dire che se penso alla curatela, questa può essere un atto più violento rispetto alla creazione artistica, nella sua necessità di scegliere e rifiutare. Tu ti trovi anche bene lì dentro, mi sembra.
FV: Non sono sempre stato così. Quando ho iniziato, pendevo dalle labbra di tutti. Andavo con Anthony d’Offay a incontrare Nicholas Serota alla sua Tate Gallery. Era un mondo diverso. La gente voleva tantissimo appartenervi, anche persone con degli ego enormi. Lo volevano perché sentivano che Serota era una guida forte, di grande ispirazione. Questa idea museale forte, di appartenenza, era molto importante. Un’altra figura simile era Ida Gianelli al Castello di Rivoli – infatti Gianelli aveva un ottimo rapporto con Serota. C’era un’osmosi e, alla fine, tutto tornava. Poi qualcosa lentamente si è spezzato, come dici tu… l’allargamento e la globalizzazione. E questo argomento è la grande sfida per le grandi industrie, per la comunicazione, per il cinema, ad esempio: tutto si riassume nella scena per me più significativa dell’ultimo film di Nanni Moretti Il sol dell’avvenire (2023), quella in cui – con frustrazione – cerca di vendere il suo progetto ai maghi dello streaming… ecco, purtroppo siamo tutti dentro quella stanza di Netflix!