Ho sempre pensato di essere un uomo fortunato per il fatto di avere avuto una certa età durante gli anni Settanta (nel 1973 ne avevo venti), all’epoca della prima fioritura dell’arte concettuale e della performance. Il lavoro di artisti come John Baldessari, Chris Burden, Gilbert & George e William Wegman trasmettevano un messaggio forte: l’arte contemporanea era un campo ricco di sperimentazioni e di pensieri radicali.
In quel periodo, uno degli artisti più interessanti, a mio parere, era Franz Erhard Walther. La sua opera, riprodotta in bianco e nero in alcune riviste dell’epoca come Avalanche, faceva parte della celebre serie “Werksatz” (“Sentenza”, ndr) realizzata fra il 1963 e il 1969: rappresentazioni formate da una o più persone che davano vita a performance con elementi scultorei in stoffa. Sehkanal (1968), in cui due individui erano legati da un lungo nastro che girava intorno alle loro teste, era l’esempio maggiormente riprodotto.
Il suo lavoro mi ha colpito in maniera diversa rispetto alle performance di quel periodo, in quanto privo dell’enfasi autobiografica che potevi percepire in Vito Acconci, Burden o anche in Joseph Beuys. Le pièce di Walther volevano essere solo delle performance di uomini più che dell’artista, anche se seguivano le sue indicazioni. In un certo senso si contrapponevano allo spirito della controcultura in voga negli anni Sessanta poiché, rifiutando l’idea di spontaneità e di improvvisazione, erano costruite con precisione su azioni misurate e controllate secondo quanto stabiliva l’artista. Infatti, erano completamente avulse dal concetto di “cultura del quotidiano”. Diversamente da Acconci che utilizzava le strade di New York o da Burden che impiegava il fucile o un Maggiolino Volkswagen, Walther evitava di utilizzare materiali e scenografie legati alla quotidianità.
Le sue sculture di stoffa, astratte e geometriche, fotografate sotto la direzione dell’artista all’aria aperta, nella scenografia naturale ma allo stesso tempo anonima di un campo ricoperto di erba, evocavano un mondo astratto e senza tempo, dove è possibile immaginare legami con antichi rituali, oppure con le strategie del Neoplasticismo e del Minimalismo. Tutto il suo lavoro sembra sorprendentemente legato alle soluzioni che, negli stessi anni, caratterizzavano le coreografie del gruppo della Judson Memorial Church di New York, in modo particolare quelle di Yvonne Rainer che ha portato in primo piano azioni quotidiane. Come per Spiral Jetty di Robert Smithson o le varie performance dell’epoca di Burden, era possibile conoscere il lavoro di Walther solo grazie alla documentazione fotografica fortemente stilizzata che l’artista stesso produceva. La mia percezione della sua opera era quindi mediata dalle immagini e dalla forte interpretazione che queste ultime aggiungevano alle performance. Gli immobili, anonimi e piatti campi di erba o di fieno che Walther aveva scelto come set richiamavano alla mente il mondo mitologico dei paesaggi metafisici tipici dei film di Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni. In molte fotografie, i protagonisti delle performance venivano inquadrati dall’alto di una scala o di un ponteggio, regalando così allo spettatore e al fotografo una magistrale veduta aerea della scena sottostante. L’utilizzo del forte contrasto del bianco e nero dava a questa immagine un’austerità e al contempo uno spessore esistenziale.
Mi sono imbattuto per la seconda volta nel lavoro di Walther negli anni Novanta quando mi venne commissionato un catalogo per una sua mostra in un museo (“Franz Erhard Walther – Ich bin die Skulptur”, Kunstverein Hannover, 1998). Esaminando nuovamente l’opera dell’artista, ho avuto la sensazione che si rifacesse alle teorie di Michael Foucault sul controllo — ciò che il filosofo definiva disciplina — dei corpi. Fu proprio l’espressione scultorea di questo modo di “disciplinare” i corpi a impressionarmi. “Il potere dell’opera — ho scritto — deriva dal fatto che non si limita a descrivere i corpi in uno spazio geometricamente regolato. Piuttosto l’artista chiedeva a se stesso e agli altri di sperimentare questo spazio come fanno i fedeli durante la Via Crucis.” Ho visto le comparse sottoposte al rigido controllo dello spazio da parte dell’autore, negando ogni parvenza di individualità, meri ingranaggi nella costruzione di un ordine geometrico astratto realizzato “solamente con due materiali, il corpo caldo pulsante e il morbido e cascante tessuto”. Ho ammirato la qualità del tutto non autoreferenziale delle rappresentazioni di Walther che rendevano ancora più intensa la narrazione di Foucault. In quest’ambito la disciplina dei corpi non aveva un fine pratico universale: coloro che partecipavano alla performance davano vita a una pura estetica dei corpi controllati all’interno dello spazio. Ero conscio del fatto che, con questa analisi, mi stavo imbarcando in una “lettura erronea” — per usare le parole di Harold Bloom — dell’opera di Walther, focalizzandomi sulle relazioni di forza, piuttosto che sull’enfasi che l’artista dà all’esperimento fenomenologico, sull’importanza dei materiali e la creazione di una comunità. Dopo Foucault, era impossibile accettare l’idea delle ricerche formali e fenomenologiche dell’arte minimalista e concettuale; dopo Roland Barthes, invece, era impossibile affermare che l’opera d’arte ha un solo significato attribuitogli dall’artista ma, al contrario, diventa il soggetto di una moltitudine di significati volutamente creati dai suoi fruitori.
E infine, ecco il mio terzo incontro in cui, a distanza di diversi anni, finalmente ho visto la serie “Werkstat” in tutta la sua maestosa e complessa tridimensionalità, durante la mostra al Dia:Beacon. In una delle grandi sale dell’edificio irregolare del Dia, cinquantotto pezzi di stoffa elegantemente ripiegati, pronti per un viaggio o comunque per essere utilizzati, erano stati posati su basse panche poste lungo i muri. Sul pavimento era stata distesa una moquette grigia che copriva quasi tutta la superficie della stanza, lasciando solo uno stretto corridoio libero sui quattro lati. Condotti da una guida molto discreta, i visitatori erano invitati a indossare i pezzi di stoffa uno alla volta. Ogni singolo individuo, coppia o gruppo interagiva al di fuori del tappeto con uno dei pezzi che diventavano immediatamente protagonisti di una performance sotto gli occhi degli altri spettatori rimasti lungo le pareti della stanza.
Quel giorno, più di quarant’anni dopo avere visto le fotografie, il suo lavoro si è mostrato in tutta la sua varietà di declinazioni materiali e temporali, trascendendo e sfidando l’interpretazione ideologica, e dando luogo a miriadi di esperienze complesse.
Con un compagno ho partecipato alle performance più famose, Sehkanal (1968) e Körpergewicht (1969). Le fotografie non mettevano in evidenza la complessità dell’esperienza, la lentezza dell’atto di ripiegare i pezzi di stoffa ben impacchettati sul pavimento o, ancora, l’atto finale di ripiegarli lungo le linee già tracciate nella stoffa in modo da ricomporli a forma di origami. Le immagini non esaltavano la bellezza dei pezzi di stoffa dai colori eleganti cuciti in maniera raffinata con tocco da couturier, né mostravano la capacità fisica fondamentale per ottenere l’equilibrio e la tensione necessaria a far vibrare di vita questi pezzi, il goffo movimento che permette a due corpi contrapposti di raggiungere la stabilità. Guardando le altre persone che partecipavano alle performance, avevi la sensazione che questi, da uomini non particolarmente sportivi, si fossero improvvisamente trasformati in abili ballerini. Ogni cosa era al di là dei confini della fotografia, al di là delle capacità di ogni sorta di documentazione.
Questo racconto finisce qui: che strano viaggio è stato. È un racconto sull’opera di Walther, sulla sua fotografia e sulla sua mostra, oltre che sulla mia fervente immaginazione. È stato inutile leggere le immagini di “Weksatz” come un veicolo capace di trasmettere in modo definitivo un significato? Nonostante la loro consistenza e potenza stilistica, avevano solo il carattere di una documentazione? Sarebbe altrettanto inopportuno analizzare un dipinto solo in base a una riproduzione fotografica? Be’, questo avviene da sempre. L’artista intendeva veramente creare due significati differenti con le opere scultoree e quelle fotografate? Oppure è stato il medium a dettare legge? Qui, il critico non va oltre, perso nella stanza degli specchi, avvolto nel caleidoscopico mondo della lettura, della lettura errata e della rilettura.