Darsie Alexander: Qual è il tuo primo ricordo d’infanzia? Chi è stata la figura più importante della tua vita, a parte tua madre? Durante la tua carriera hai privilegiato forme amorfe che ricordano parti del corpo, rocce, frammenti di strumenti musicali, cibo e fumetti. A che tipo di forme pensi quando vai a dormire?
Franz West: Il primo ricordo è di quando mi facevano il bagno in una bacinella. La persona che mi ha influenzato di più è stata mio fratello. Prima di dormire penso a forme blu simili a foglie, lunghe, arrotondate sulla punta; sono forme fluttuanti, che si auto-divorano. A volte sono lucenti, a volte, purtroppo, sono solo sacchetti maleodoranti.
Tom Eccles: C’è un detto viennese che dice che quando ci si sveglia dopo una sbornia, “si vedono gli zombie”. Adesso, come sono i tuoi risvegli?
FW: Mi sveglio arrabbiato e litigo con mia moglie, picchio i miei figli e poi sputo per strada. Poi mangio un po’ di frutta, mi lavo i denti, mi vesto e prendo un taxi che mi porta in studio.
Gelitin: Come trascorri la domenica? Il tuo ultimo costume di carnevale?
FW: La prossima domenica andrò a Baden, un villaggio vicino Vienna dove i miei figli trascorrono le estati. Passerò un po’ di tempo con loro. Il mio ultimo costume di carnevale è stato un elmetto.
Tim Van Laere: Nel tuo lavoro utilizzi spesso associazioni libere, giochi di parole e titoli molto originali: in certi casi scrivi dei testi appositamente per certe sculture, come per la monumentale Ein Hod (2008), che abbiamo esposto un anno e mezzo fa all’Antwerp Sculpture Show. Come è nato questo lavoro oltre al titolo e al testo?
FW: Rimango spesso sveglio dopo mezzanotte, impegnato con le sculture a cui sto lavorando; in una specie di dormiveglia, associo elementi che riguardano cose che ho letto, visto, sperimentato…
Alison Gingeras: La tua passione per la musica — specialmente quella improvvisata, sperimentale o di strada — potrebbe essere in un certo senso usata come una metafora per descrivere il tuo lavoro in studio, e magari anche la filosofia che lo sottende?
FW: Sì, in un certo senso… Immagino di sì! Quando un concerto è particolarmente buono (di solito sperimentale, la musica di strada mi piace meno), ho come l’impressione che, se tutti i miei sensi fossero annullati, il modo in cui ascolto dovrebbe per forza rigenerarsi. Spero che questo influenzi i disegni per le mie minacciose ossificazioni.
Rachel Harrison: Robert Rauschenberg una volta ha detto che nulla è peggio di un brutto colore. Sei d’accordo? Ci sono colori che eviti di usare o che non useresti mai?
FW: Non mi piace il viola rossastro. In passato c’erano alcuni colori che non mi piacevano, e proprio per questo li usavo; dopo vent’anni sono diventati piacevoli. Come sostengono alcuni filosofi — da Eraclito che dice che “non puoi entrare nello stesso fiume due volte’’ agli Sliding Signifiers di Baudrillard — tutto cambia.
Erik van Lieshout: Da cosa dovrei liberarmi?
FW: Dal tuo Edipo.
Christian Meyer: Quanto è importante l’uso di nuovi materiali nel tuo lavoro?
FW: Spesso ho cercato di utilizzare i materiali nuovi con una certa deferenza, ma ho scoperto che questo mi porta via troppo tempo; l’unica cosa che uso è il mio telefono cellulare, il che significa che i materiali nuovi non mi interessano.
Paola Pivi: Ci si può sedere sulle tue sedie?
FW: Dipende.
Almine Rech: Pensi che avresti potuto fare qualcosa di diverso dall’artista nella tua vita?
FW: Non me lo sono mai chiesto. E se me lo chiedessi adesso, non lo scoprirei mai.
Christopher Wool: Certe persone, guardando una pizza, hanno visto un’immagine della Vergine Maria… Io ci vedo solo il riflesso del mio viso… e tu?
FW: Anch’io.
Denys Zacharopoulos: Nel tuo lavoro c’è uno sviluppo più formale o più organico, un corpo nel tempo o piuttosto una forma nello spazio? Reputi queste problematiche obsolete visto che il tuo lavoro ha a che fare con rotture, catastrofi, incidenti o casualità? In base a questo, possiamo dissociare il corpo e la forma, il tempo e lo spazio e percepire il divenire di un’opera?
FW: Sicuramente si tratta di un processo di sintesi. Da una parte ci sono i problemi spaziali con la realtà, dall’altra il processo è organico, anche se solo approssimativo. Non faccio ricerca sul perché di quello che produco, quindi l’approssimazione può anche portare a una conclusione.
Rainer Ganahl: Franz, quando vedo i tuoi bianchi “Passstücke (Adaptives)” dei primi anni Settanta, penso immediatamente all’arte di Schwarzkogler, che torturava il suo corpo, mentre tu ci giochi soltanto e lo rispetti… Puoi parlarci un po’ di questa serie meravigliosa, che sembra essere stata fonte di ispirazione per le “One Minute Sculptures” di Erwin Wurm? Qual è l’origine di queste sculture?
FW: Il loro disegno è preso in prestito da alcuni artisti, ma il contenuto è un’altra storia: non è espressione, ma interazione. Questo non si può dedurre dalle fotografie; è un concetto intellettuale e pratico al contempo.
Jonathan Monk: Qual è il tuo colore preferito e perché?
FW: L’arancio pallido, non so perché.
Nicola Trezzi: Cosa pensi della generazione di giovani artisti che usano il linguaggio del design? Penso a Atelier Van Lieshout, Tobias Rehberger, Pae White e Jorge Pardo. Ti senti un padre putativo, oppure reputi il loro lavoro troppo interattivo (troppo basato sull’Estetica Relazionale, per citare Bourriaud)?
FW: Per molto tempo l’interazione è stata al centro del mio interesse; adesso non lo è più e ne sono felice; credo che questo sia il futuro.
Annie Claustres: La superficie delle tue sculture mi ha sempre incuriosito e affascinato. Non è pura, o ideale, o perfetta nel disegno, e nemmeno traumatica e piena di pathos, negativa, limitata. Che cosa cerchi dunque? Cosa, di questa superficie, ti ispira? E cosa mi dici della relazione tra la superficie e la sua pelle (la superficie vivente?)
FW: La superficie è la pelle di una scultura e direi che sono ambedue organiche, così come lo è la loro espressione.
Veit Loers: Ti sei occupato, in maniera abbastanza riservata, della filosofia di Hegel. Per lui, la relazione tra parole è come una relazione tra esseri umani. Riesci a vedere questa animazione anche nella costellazione dei tuoi Alu-plastic, o nelle sculture papier-mâché?
FW: Certamente!
Paul Nesbitt: Non sono un esperto di macchine, ma quelle belle mi piacciono. Quando sei venuto al Royal Botanic Garden di Edimburgo per la tua mostra, mi hai detto che possiedi non una, ma due Maserati Quattroporte (una delle macchine più belle mai realizzate — quando fu prodotta nel 1963, era la più veloce quattroporte del mondo). Poi hai trasformato una di esse in una scultura. Che ne è stato dell’altra?
FW: Sono riuscito a venderla per fortuna, perché molti non vogliono una Maserati di seconda mano. Ho potuto guidarla e mi ha dato talmente tante soddisfazioni che non ne ho più bisogno.
Paul Nesbitt: Ricordo il nostro primo incontro a Inverleith House: quell’anno la primavera era in ritardo e ti avevamo invitato a fare una mostra di sculture per uno spazio esterno (“Meeting Points”, 2001). Sfortunatamente, avevo capito male l’orario del tuo arrivo e, quando ho aperto la porta del mio ufficio, eri già lì. Mi dispiaceva che non ci fossero fiori da mostrarti e inoltre pioveva (indossavo una camicia di finta pelle di serpente). Sorpreso di vederti, dissi: “La primavera è in ritardo, come me’’. A pranzo, mi hai poi detto che avevi già un’idea per il poster della mostra, che ti ritraeva in piedi, mentre aspetti e guardi l’orologio. La scelta dell’immagine ha a che fare con il mio ritardo?
FW: E con cosa, se no!
Marc Straus: Siamo in un’epoca in cui molti artisti famosi, da Jeff Koons a Damien Hirst, fanno realizzare gran parte delle opere agli assistenti. Quale parte di un’opera è solo tua? Dipingi le superfici?
FW: Originariamente facevo tutto io, fino a che si è trattato di opere in metallo; da un po’ di tempo a questa parte, invece, sono realizzate dagli assistenti. All’inizio dovevo spesso apportare delle correzioni, adesso invece sempre meno. Io scelgo i colori, poi li guardiamo insieme e possiamo correggerli dopo. Le opere destinate a spazi interni sono fabbricate perlopiù da me; siccome non sono più molto agile, le mansioni principali sono svolte dagli assistenti.
Thomas Zipp: Hai mai provato il crystal meth?
FW: Certamente! Mi trovavo nella stanza accanto a quella in cui le mie sedie venivano dipinte con lacca poliuretanica. Il mio studio è in una zona residenziale, quindi puoi immaginare…
Livia Straus: Ti abbiamo visto di recente a Berlino alla mostra di dipinti astratti di tua moglie Tamuna Sirbiladze allo Charim Ungar, che tu hai curato. I vostri lavori si sono influenzati a vicenda?
FW: Questo potrebbe dirlo più facilmente qualcuno dall’esterno. Abbiamo smesso di commentare i rispettivi lavori perché molto spesso emergevano questioni riguardanti l’iniziazione, così che ciascuno di noi ignorava categoricamente l’influenza dell’altro. La realtà potrebbe essere giudicata solo da un punto di vista neutrale e oggettivo. Comunque non credo di aver mai violato la pittura.
Sarah Lucas: Che cosa mangi?
FW: Prevalentemente mandorle. Recentemente anche il mango secco, papaya e ananas, Pata Negra, formaggio, salame e pane bianco italiani, pane integrale austriaco, frutta fresca. Se vado a mangiare fuori: risotto, scaloppine, pasta con ottimo olio d’oliva.