L’altro giorno ero a Bristol, per una riunione di lavoro a cui partecipavano operatori culturali di tutta Europa. Ero al tavolo con alcuni colleghi e, come sempre mi capita in questi mesi, inevitabilmente si è finiti per parlare di ciò che sta accadendo in Italia. Sempre le stesse domande, sempre la stessa incredulità. E sempre, inevitabilmente, le stesse risposte, che vi risparmio perché potete immaginarle da soli. Ma quello che mi ha colpito stavolta è stata l’affermazione di una ragazza slovacca che, con naturalezza, guardandomi negli occhi, mi ha detto: “Ma in fondo, l’Italia è un paese governato dalla mafia. E quindi, cosa vi aspettavate? È chiaro che prima o poi vi sareste ridotti così”. Questo non me lo diceva un inglese o un francese o un tedesco, tanto per citare i paesi che, per ragioni diverse, sono facilmente portati a fare ironie pesanti su di noi e a trattarci con greve condiscendenza. Me lo diceva una ragazza slovacca, che non aveva alcun accento di ironia o di divertimento nella sua voce, e che veniva da un paese che fino a qualche anno fa avrebbe considerato il nostro una sorta di terra promessa. Una ragazza che viene da un paese tuttora lacerato da divisioni politiche serie, un paese uscito da poco dal socialismo reale, un paese peraltro abituato a sentirsi subordinato storicamente ed economicamente alla più forte e oggi indipendente Repubblica Ceca. Ma allo stesso tempo un paese che, pur partendo da fondamentali economici peggiori di quelli di altre nazioni ex socialiste, è riuscito a entrare nell’area euro, un’eventualità che per altri vicini più famosi e autorevoli come l’Ungheria e la stessa Repubblica Ceca sembra ancora molto lontana, soprattutto in questa fase di tempesta finanziaria che incombe sull’Europa. Questa ragazza, dicevo, mi parlava nell’evidente convinzione di confrontare il suo paese con il nostro e di potere comunque giudicarci da una posizione di superiorità, non economica o politica ma di civiltà sociale.
Vorrei poter dire che non mi interessa qui tanto stabilire se abbia torto o ragione, e che mi incuriosisce semplicemente il fatto che lo pensi, che ne sia così certa. Che mi interessa il fatto che, in questi mesi, incontro sempre più persone, anche provenienti dai contesti più improbabili, che la pensano così. Durante la nostra conversazione, ho risposto con una punta di irritazione a quella ragazza che sì, è vero che in Italia la criminalità organizzata ha un peso e un potere di condizionamento notevole (lo ha appena ammesso lo stesso governatore della Banca d’Italia), ma è una semplificazione eccessiva vedere il nostro paese come regno della mafia (delle mafie, a voler essere precisi). Ma mentre parlavo, la vedevo osservarmi con freddo scetticismo, e sapevo che quello che stavo dicendo non avrebbe minimamente spostato la sua opinione. E questo mi ha fatto sentire una terribile sensazione di freddo, come se una finestra invisibile si fosse appena spalancata per fare entrare un soffio di aria gelida.
E la ragione la conosco, in fondo. Se devo basarmi sui fatti, così come sono riflessi nei principali indicatori socio-economici, devo concludere che questi sono tutti dalla sua parte.
In base al Corruption Perception Index sulla diffusione sistemica della corruzione, pubblicato annualmente da Transparency International, l’Italia nel 2010 è 67esima (un gradino sotto il Ruanda) — la Slovacchia, tanto per dire, ci sopravanza, anche se di poco: è 59esima, assieme alla Tunisia e alla Lettonia, sotto alla Turchia. Dei paesi ex socialisti che fanno parte della UE, solo la Bulgaria e la Romania sono più in basso dell’Italia. L’unico altro paese UE che è a livelli più bassi del nostro è la Grecia. In base al Press Freedom Index di Reporters Without Borders sulla libertà di stampa, altro indice pubblicato annualmente, l’Italia è 49esima, assieme al Burkina Faso — la Slovacchia, tanto per dire, è 35esima. Ancora una volta, solo Grecia, Romania e Bulgaria hanno livelli più bassi del nostro su questo indicatore. In base all’indicatore Doing Business 2011 della World Bank, ancora una volta un indice annuale, che misura in questo caso la facilità di operare in un paese secondo le regole di un’economia di mercato, l’Italia è 80esima, un posto sotto la Cina, due posti sopra l’Albania — la Slovacchia è 41esima, e tutti i paesi europei con l’eccezione della Grecia, comprese questa volta anche Bulgaria e Romania, hanno livelli più alti dei nostri. Negli ultimi cinque anni, nell’85% delle economie mondiali l’indice Doing Business è migliorato. In questi cinque anni, noi non siamo stati capaci di essere al passo con questa tendenza globale, perdendo dieci posizioni, dal già non esaltante 70esimo del 2006 all’80esimo posto di oggi. La ragazza slovacca, quindi, aveva le sue ragioni nel guardarmi dall’alto in basso su un piano di civiltà sociale, soprattutto se consideriamo gli squilibri di reddito e di ricchezza tra i due paesi — che implicano situazioni di partenza molto diverse, e in teoria molto favorevoli a noi — non a caso, tutti gli altri paesi ricchi sono molto al di sopra di noi su tutti gli indicatori.
L’Italia di oggi può non essere governata direttamente dalla mafia, ma certamente è un paese che sta compiendo un salto in basso di un’entità che non ha lontani paragoni in nessun altro paese socio-economicamente avanzato. Gli indicatori che ho citato, e potremmo facilmente citarne molti altri, dicono che l’Italia di oggi ha una struttura socio-istituzionale da paese emergente più che da democrazia di mercato avanzata, e anche nella fascia dei paesi emergenti ce ne sono molti i cui indicatori sono stabilmente migliori dei nostri. Come è stato possibile arrivare a questo? In questi ultimi anni è stata prodotta una letteratura vastissima che ha fornito una descrizione molto dettagliata dei vari meccanismi perversi attraverso cui l’Italia si è progressivamente trasformata in un paese totalmente in ostaggio del malaffare, della corruzione, degli interessi particolaristici. Un paese che non ha più alcuna fiducia nelle proprie istituzioni, che non ha un progetto di futuro in cui riconoscersi, che non ha nulla da trasmettere alle sue generazioni più giovani se non un corso accelerato di cinismo.
Penso a queste cose, e mi viene in mente il “Dito” di Maurizio Cattelan, nel mezzo di Piazza degli Affari a Milano. Un’intuizione straordinaria, il cui senso non credo proprio sia stato colto da chi gli ha permesso di collocarlo lì. C’è chi ha protestato per l’offesa al decoro (quale decoro? Di chi?), chi per il “cattivo gusto” dell’arte contemporanea, ma nessuno sembra essersela presa per l’implicazione più cattiva e calzante del gesto di Cattelan: è difficile immaginare una rappresentazione plasticamente più efficace del Fuck You, del principio che indiscutibilmente riassume due decenni abbondanti della più recente vita pubblica di questo paese: un paese in cui si accede a servizi scadenti pur dovendo fronteggiare un livello di pressione fiscale da paese scandinavo, per di più iniquamente distribuita a causa di un tasso di evasione di livello inaudito, un paese pervaso da palesi e mostruosi conflitti di interesse in ogni settore dell’economia, della comunicazione, delle istituzioni, un paese che ha totalmente abbandonato il presidio dei settori chiave per la costruzione di una socio-economia avanzata: dal sistema formativo all’università, alla ricerca, alla cultura, alla connettività digitale.
Fuck You, fottetevi, affari vostri, arrangiatevi come potete. Una semplice, lineare dichiarazione di intenti. Nel mezzo del luogo simbolo del potere economico di questo paese, quello in cui sono maturati tanti dei recenti scandali economico-finanziari che hanno colpito decine di migliaia di piccoli risparmiatori. Nel mezzo dello spazio di massima teorica mobilità e trasparenza dell’economia italiana, quello dove passano di mano i titoli di proprietà delle aziende più grandi del paese, che sulla carta sarebbe un’economia di mercato e di fatto è diventato sempre più nel tempo una consorteria governata da un sistema intricatissimo di partecipazioni incrociate, patti di sindacato, piramidi societarie che blindano il controllo dell’intero sistema nelle mani di pochissimi interessi privati, che riscrivono continuamente le regole del gioco a proprio piacimento, e che tengono lontani da quello che in teoria sarebbe uno dei paesi più avanzati del mondo i capitali e i talenti internazionali, e assistono con indifferenza all’esodo crescente dei capitali e dei talenti che per tanto tempo hanno provato a resistere qui, malgrado tutto.
Bravo, Maurizio Cattelan. Bravo, ancora una volta, per essere riuscito a mettere lì, proprio lì, quello straordinario monumento, sotto il naso di tutti. Per aver reso palese con un solo gesto quello che un esercito di spin doctors, consulenti di immagine e uffici stampa cerca minuziosamente di occultare tutti i giorni, dietro congrua ricompensa. Sarebbe davvero una giustizia poetica se quel monumento di tragica bellezza restasse lì, a futura memoria. E quanto a resistenza, ne ha da vendere. Doveva rimanere lì un paio di settimane, e ora pare che non sarà spostato prima dell’autunno di quest’anno. Ma è evidente che prima o poi qualcuno se ne accorgerà. Non a caso il neo-insediato presidente della Consob, Giuseppe Vegas, a quanto ci dice la stampa, si rifiuta di tenere la relazione annuale a Piazza Affari finché “quella cosa” rimane lì. O lei o io, pare che dica: un vero aut aut. Non importa, fatela altrove, la vostra presentazione della relazione annuale dell’organismo di vigilanza della Borsa italiana, che naturalmente dirà che tutto va benissimo così com’è. Lasciate lì il dito, spostatevi voi. E c’è chi dice che l’arte contemporanea non serve a niente…