Hans Ulrich Obrist: Eri incerto rispetto a questi appunti del ’62. Cominciano con “La prima cosa che conduce alla pittura è il bisogno di comunicazione”.
Gerhard Richter: Questo non è falso, così come non è falsa una verità lapalissiana.
HUO: Attraverso reiterazioni nel testo emergono certe strutture fondamentali del tuo pensiero, per esempio l’avversione alle ideologie.
GR: Probabilmente la si porta dentro fin dalla nascita. A sedici o diciassette anni mi apparve chiaro che non c’era nessun Dio, cosa che, per uno come me cresciuto con un’educazione cristiana, fu un’esperienza inquietante. Contemporaneamente, allora, si era formata l’antipatia basilare verso ogni forma di pensiero, e quindi verso ogni ideologia.
HUO: L’invito-comunicato stampa alla Manifestazione per il realismo capitalistico chiarisce che si trattava di un’azione.
GR: E non dell’invenzione di una tendenza dello stile.
HUO: Nella conversazione e nel testo riemerge sempre il concetto di ready made, soprattutto nelle parole di Buchloh, ma lo stesso avviene nei nuovi appunti e nelle nuove conversazioni dove parli dei quadri astratti come ready made: si arriva così all’affermazione di Duchamp, in base alla quale il concetto di ready made si estende fino ad abbracciare l’intero cosmo.
GR: Anch’io condivido l’idea del significato estensivo del ready made, poiché quando lo si pratica solo nell’arte può esaurirsi facilmente nell’illustrativo e nel modesto: il Piedistallo del mondo ne era un esempio.
HUO: Malgrado il costante dialogo e lo scambio di informazioni con Polke e Fischer, non siete mai arrivati alla formalizzazione dei meccanismi di formazione dei gruppi, come è avvenuto in Art and Language per esempio.
GR: Non ne sono affatto convinto. Erano i rari momenti in cui noi, una buona volta, facevamo qualcosa insieme e costruivamo una sorta di organizzazione di soccorso, altrimenti saremmo più facilmente stati concorrenti.
HUO: C’è quel testo preso dal giornale su un manifesto della galleria Friedrich + Dalhem.
GR: Era un ready made, no?
HUO: Il tuo unico ready made a me noto, accanto alle forme miste per Perry Rhodan nel catalogo della galleria e alla tua rinnegata autorappresentazione nel libro di Herzogenrath.
GR: Per me era uguale a una foto ritrovata. Ma credo che questo testo non lo abbia capito nessuno, perché era scomparso dal manifesto. Successivamente ho sperimentato spesso testi simili, o montaggi di testi.
HUO: Come nacque il Perry-Rhodan-Textcollage?
GR: Avevamo selezionato il materiale, si accordava prefettamente a quell’utopistica epoca naive che furono gli anni Sessanta con le rappresentazioni di altri pianeti. Questa qualità poco artistica, popolare, che combaciava con le foto, i giornali, le riviste illustrate, era il il lato Pop. Tutto questo oggi non è più pensabile.
HUO: Di questi testi assurdi fa parte anche la conversazione immaginaria Richter/Twaites redatta da Polke, dove emerse il concetto del pittore pop. Ciò fu concepito ironicamente, oppure vi siete definiti in quel modo come i rappresentanti tedeschi della Pop Art?
GR: A dire il vero era stato immaginato soprattutto ironicamente, in un momento in cui noi cercavamo di allontanarcene. Solo all’inizio eravamo un po’ naïf, andavamo il sabato nelle gallerie con Konrad Fischer e Iris Clert e dicevamo: “Noi siamo gli artisti pop tedeschi”.
HUO: Nei testi e nelle conversazioni emerge più volte il concetto di informale; non lo respingi ma delimiti la pittura informale dal realismo. Contemporaneamente la tua opera sembra derivare da un tipo di controreazione a quei giochi stilistico-manieristici una volta dominanti nella scuola tachistico-informale che hanno origine dall’automatismo. Un concetto di informale che circoscrive lo sfruttamento di queste possibilità. Che significato ha per te il concetto di informale oggi?
GR: I tachisti, gli artisti dell’Action Painting, gli informali e così via sono per me solo una parte di un movimento informale che riguarda molti altri. Beuys possiede, secondo me, anche dell’informale, ma cominciò con Duchamp e per caso con Mondrian o con gli impressionisti. L’informale è il contrario della qualità costruttiva del classico, dunque dell’epoca del re, della gerarchia chiaramente costituita.
HUO: Ti vedi dunque in futuro, in questo contesto, come artista informale?
GR: Sì. L’epoca informale è appena cominciata.
HUO: Negli appunti parli anche della funzione rituale che la fotografia assume. Dietro la presentazione banale emerge un’inattesa qualità illustrativa del permanente-universale. Si trattava di una possibile legittimazione di quadri illegittimi, per legittimare un’“arte illegittima” (Bourdieu)?
GR: Queste foto, immagini sacre, che le persone appendono in casa, sono proprio le immagini legittime che noi utilizziamo qualche volta per l’arte, e con cui forse facciamo qualcosa di illegittimo.
HUO: Dici anche che si può vedere la foto come quadro al di fuori delle categorie di alto e basso, delle fotografie rituali e dell’arte. Qui si trova una differenza notevole con Polke, poiché da sempre respingi la manipolazione della camera oscura per il lavoro.
GR: Questo è più un aspetto tecnico-formale. Non mi sono trattenuto volentieri nella camera oscura. Ma, ancora a proposito della legittimazione, forse è illegittimo anche portare la forma fotografica nei pressi del ready made. Essi hanno il carattere del ready made solo perché in confronto ai faticosi quadri dipinti a mano sono facili da realizzare, il che vuol dire che devono essere scelti solo, appunto, come ready made. Questa differenziazione si regge su presupposti deboli, poiché forse possiamo notare che non c’è alcun ready made. Ci sono solo quadri, che valgono di più o di meno, che sono interessanti per molto o poco tempo, per i quali si può pagare molto poco o moltissimo.
HUO: Dunque i fotografi sono artisti.
GR: Sì, perciò quando io ritraggo di nuovo zio Rudi, la foto di questo piccolo ufficiale è addirittura uno sbiadimento della vera arte che questi due o tre privati che dovevano tenere fermo o in sospeso dietro il vetro hanno prodotto. E non c’è sbiadimento solo se io riesco a dare all’oggetto, attraverso il ritratto, più popolarità. La cancellazione era l’unica possibilità di rimetterlo in sesto. I fotorealisti lo hanno più tardi dipinto in modo pedante: ora, io sono, primo, troppo impaziente e, secondo, sopravviene qualcosa che in realtà distrugge la percezione: il formato di dimensioni eccezionali, e con esso l’attenzione rivolta alla prestazione, fatto che dura un anno, lo stupore per il risultato e l’effetto “sembra-proprio-una-foto”. Ho voluto evitare tutto questo, con le modalità della produzione. Perché è evidente: una foto è pensata intenzionalmente ma non è copiata e riprodotta con fatica. Questo ha anche funzionato una volta: i quadri avevano un’essenziale somiglianza con la foto senza per questo sembrare copie delle foto.
HUO: Parli anche della fotografia come disegno, oppure nel senso di Vermeer, in quanto camera oscura. E in questo caso essa sarebbe una sorta di primo passo per la creazione di quadri. Questo è il rovesciamento del primato fotografico, dal cui sconfinante impulso si è sviluppato il modernismo. Con te la foto viene improvvisamente usata in modo molto naturale per la produzione del quadro.
GR: Nella prassi pittorica tradizionale è proprio questo il primo passo. Prima i pittori uscivano all’aria aperta e disegnavano. Questo si ritorce anche contro la seria presa in considerazione delle foto come “mondo di seconda mano”, che per me è senza importanza. Molti critici vi hanno visto una tematica per cui oggi viviamo ancora in un mondo conciliato, e la mia arte mette in discussione questo concetto.
HUO: La macchina fotografica focalizza un frammento. L’immagine afferrata dall’esterno avanza e contemporaneamente indietreggia.
GR: Si è detto che i miei quadri producono l’effetto di frammenti. Benché ciò possa essere vero, non riesco a capirlo. Forse c’era qui una incompiutezza calcolata, un’apertura: sono quadri che sono tagliati ai quattro lati ma possono mostrare sempre e solo frammenti.
HUO: Il capolavoro è l’opposto dell’aneddoto. Anche del frammento. Tu parli dell’impossibilità dell’immagine assoluta ma introduci nuovamente il concetto di capolavoro.
GR: Forse si aspira proprio a questo ogni volta, al capolavoro, che quindi in tal caso non lo diventa. Sembra essere così fuori dal tempo che non si può perseguire una sola volta.
HUO: La discussione sulle opere e le posizioni artistiche importanti per te culminano nella conversazione con Buchloh in una ricostruzione della tua recezione della storia dell’arte. In una conversazione anteriore nomini Barnett Newman per quanto riguarda la posizione storica e Gilbert & George come contemporanei.
GR: Barnett Newman era sempre importante, arrivava indifferentemente a Mondrian e a Pollock, e rappresentava già prima una forma nostalgica, in quanto produceva grandi superfici chiare, elevate, che a me non sarebbero mai riuscite. Era davvero l’esatto contrario di me. Gilbert & George mi piacevano soprattutto come outsider — una volta l’arte paesaggistica e concettuale dei minimalisti era davvero determinante — e anche un certo loro lato nostalgico, ma credo che più di tutto mi abbia impressionato la loro naturale indipendenza.
HUO: Che i quadri, cioè, non rimanessero imprigionati nella camicia di forza modernistico-dogmatica?
GR: Nelle ideologie. Forse ho una specie di immunità alle ideologie e alle mode: la sacralità della casa paterna, il nazismo, il socialismo, il movimento rock… tutte le mode che hanno rappresentato lo spirito di un’epoca mi sono sempre apparse più preoccupanti che attraenti.
HUO: Il rifiuto modernistico dell’“arte per tutti” nasce appunto dal risentimento, poiché la pittura al cospetto della fotografia aveva da lamentare la perdita di tutte le sue funzioni descrittive. Il tuo naturale rapporto con l’immagine fotografica ritorce di nuovo la lancia senza restaurare la vecchia unità di soggetto e oggetto e senza ritornare all’esperienza diretta davanti alla materia. La costruzione dell’immagine appare in uno specchio frantumato.
GR: Il ritratto dell’artista reietto è per me terribile: preferisco i tempi d’oro, il Rinascimento o la fioritura artistica in Egitto. Il sofferente e incompreso Van Gogh non è il mio ideale.
HUO: È stato importante per te Beuys? Accanto a Manet e Ingres, Beuys è l’unico altro artista che si trova nel tuo studio.
GR: Perché come persona mi affascina da sempre al pari di nessun altro. Ma quando vidi le sue opere per la prima volta non mi parve così interessante. Sono più per il solenne, il classico, l’universale.
HUO: In connessione con i quadri astratti degli anni Ottanta riporti in gioco il concetto di caso. Nelle tue opere vedo il Caso ma mai nel senso di operazioni casuali; è un gioco seriale con elementi conosciuti che vengono giocati a dadi, come accadeva nell’arte concettuale.
GR: Fino alle tavolozze di colori; essi erano seriali e io avevo mescolato i colori dati e poi li avevo collocati a caso. È stato interessante per me vincolare il caso a un ordine fisso.
HUO: Nell’atlante (Atlas) ci sono schizzi e progetti per ambienti che manifestano la preoccupazione di trovare una collocazione per i quadri, un’ansia di produrre una sorta di specificità del luogo.
GR: Qualcosa di simile c’è, ma solo negli schizzi, perché una realizzazione sarebbe insopportabile, patetica e ampollosa.
HUO: Quali dei tuoi lavori esistono in spazi pubblici? La stazione della metropolitana a Duisburg, la Hypo-bank a Düsseldorf…
GR: …e due grandi formati di Victoria in una compagnia di assicurazioni; due tratteggi gialli in una scuola. Poi presso la BMW c’è una cosa inopportuna: tre grandi quadri, uno rosso, uno giallo e uno blu, su una parete di lino alta tre metri e lunga sei — come ingrandimento.
HUO: Hai sempre assunto l’atteggiamento di non controllare il percorso del quadro. Dunque i quadri devono essere liberi.
GR: Incondizionatamente. Non necessitano di precauzioni: se sono validi troveranno sempre il luogo adeguato, se non lo sono finiranno in cantina, e non c’è niente di male in questo.
HUO: Nella simbiosi con il luogo i quadri sopravvivono al tempo.
GR: Da questo siamo oggi molto lontani. Kounellis parlò, in un’insolita conversazione con Beuys, Kiefer e Cucchi, della cattedrale in costruzione. Ciò talvolta viene fatto con accortezza artistica, quando le gallerie e i curatori vogliono ottenere qualcosa strenuamente ed eseguono tali monumenti artistici che sono degli pseudo-capolavori a pieno titolo.
HUO: Quando ho visto la tua sala a Kassel mi sono chiesto se il legno lo avessi scelto tu o se ti fossi appropriato di un elemento già implicito nell’architettura del padiglione. Il legno potrebbe essere parte di una serie prefabbricata. Contemporaneamente, si fa valere la frattura con l’aspetto esteriore del white cube.
GR: Il rivestimento in legno me lo ha proposto Paul Robbrecht. Il vincolo delle pareti bianche c’è solo da 60-80 anni.
HUO: Dopo che, nel 1966, facesti un’opera in vetro trasparente divisa in quattro parti, questo materiale venne utilizzato più spesso, in arte come in architettura. Venne utilizzato nel contesto dell’arte minimalista e concettuale: in Morris come cubi riflessi, dove la sala di esposizione e l’osservatore diventavano parte del lavoro; e naturalmente in Dan Graham. Graham indica nel testo Corporate-Arcadia la massiccia presenza del vetro nell’architettura di tutti i tempi. Architettura trasparente.
GR: Era anche un concetto sociale per lui. Ciò che mi ha attratto nei miei specchi era che non dovevano subire manipolazioni. Un pezzo di specchio acquistato, appeso, senza accessori. Produce un effetto immediato, anche a rischio di essere una banale rappresentazione. Gli specchi, e ancor più i vetri, erano rivolti anche contro Duchamp, contro il suo Grande Vetro.
HUO: Il boomerang Duchamp ritorna sempre. In rapporto alla complessità del Grande Vetro assumi una posizione contraria ma contemporaneamente sopraggiunge l’idea del ready made.
GR: Può essere. Ma sono contro questa pseudo-complessità, non mi piace questo mistero costruito.
HUO: Nei quattro vetri si riduce l’azione artistica sui minimalisti?
GR: Devo faticare ancora una volta per trovare la proporzione adatta a creare la giusta base. Non si tratta di ready made, né tantomeno del vetro di Duchamp.
HUO: Perché richiede tanto lavoro.
GR: Esatto. Una volta ero sul punto di acquistare un ready made costituito da un clown alto quasi un metro e mezzo, con una molla che si sollevava e poi si afflosciava. Costava a quel tempo più di 600 marchi, troppo per me. Ci sono rari casi in cui ci si rammarica di non aver fatto qualcosa, e questo è uno di quelli.
HUO: Negli ultimi anni sono nati gli specchi grigi e quelli colorati (Mirrors).
GR: Sono lastre di vetro che dietro hanno uno strato di colore. Non sono né veri specchi né quadri monocromi. Questo mi piace.
HUO: Anche la sfera è, attraverso il riflesso dell’ambiente, destinataria e veicolo dell’apparenza. L’antico attributo universale dell’imperatore sembra avvolto nel quadro. Spesso, negli ultimi tempi, hai ridipinto quadri o ne hai raschiato via i colori.
GR: Come nei giochi di Boule. Abbattere, creare situazioni nuove.