Helena Kontova: C’è differenza tra il dipingere bambini, angeli o immagini di guerra?
Gian Marco Montesano: Nessuna se ci si allontana dall’aspetto narrativo: il mio lavoro è fondato sul mito, sull’inconscio soggettivo che incontra quello collettivo, popolare. Ed è romantico proprio per quell’elemento popolare che sospinge il Romanticismo.
HK: Hai iniziato ad affrontare il tema della guerra nei tuoi dipinti dalla fine degli anni Sessanta.
GMM: Perché pensavo che la guerra non fosse più possibile. Credo infatti che la guerra non ci sia più, che appartenga ormai a un mondo espressivo, memoriale ed estetico. Le guerre contemporanee sono puro sterminio impersonale che non mette più in campo il soldato, l’eroe, che si sacrifica, che perde. Oggi l’eroe è una sorta di rovesciamento caricaturale del suo modello, è colui che vince senza sacrificarsi.
HK: Sei più vicino a Duchamp o a De Chirico?
GMM: A Duchamp. Il mio modo di pensare e sentire va verso il contropiede, l’inatteso. È un’attitudine d’avanguardia, anche se involontaria; un modo fisico di capire le cose.
HK: Negli ultimi quadri ci sono riferimenti alla Mitteleuropa e ai paesi dell’Est.
GMM: L’Europa si condensa in un’unica Umwelt che riconosco come mia tribù. Un mondo in cui però sono successe molte cose: una parte di esso, l’Occidente, è entrata da tempo nell’epoca che Marx chiama della sussunzione reale, quel momento in cui tutte le componenti della società divengono fattori della produzione capitalistica. L’altra parte, l’Est, rimasta tagliata fuori dai processi di sviluppo e dal consumo, ha conservato valori, ideologie controverse e una specificità culturale. L’Occidente è ricco di beni ma povero di valori umani; l’Est è povero di beni e libertà ma ricco di tensioni e di valori, seppur minacciati. Solo lì un poeta può diventare Presidente della Repubblica. Questa Mitteleuropa si collega alla mia idea di Europa, che non può essere quella indifferente, indifferenziata e intercambiabile di un Occidente che parla solo Inglese e che preferisce per conformismo coatto l’ultimo disco uscito dal mercato americano a Mozart; un Occidente che, per dirla tutta, non ha più religione.
HK: Che differenza c’è tra dipingere un quadro astratto e uno figurativo?
GMM: Credo che i pittori più bravi siano quelli che dipingono in modo astratto. Io non ne sono mai stato capace e invidio quelli che ci riescono, ma credo anche che una pittura completamente praticata per l’amore di se stessa si rinchiuda in un ghetto dell’artigianato, perché la pretesa radicale dell’astrazione si rivolge all’assoluto. Capita infatti che chi vuol fare l’angelo finisca per fare la bestia.
HK: Quando hai cominciato a dipingere?
GMM: Per un certo periodo non ho potuto andare a scuola perché sfioravo l’autismo. Non volevo essere toccato, non toccavo nessuno, ero incapace di apprendere perché incapace di stabilire relazioni, stavo in casa con mia nonna. Questo spiega un lavoro… fatto in casa, che si relaziona solo a se stesso e non tocca mai il corpo, soprattutto teorico, dei lavori altrui. Quando sono riuscito a tornare a scuola, dopo aver saltato le elementari, mi sono ammalato di meningite. Mi curarono con la marconiterapia, che mi fece cadere tutti i capelli, e per non espormi agli sberleffi mi hanno tenuto di nuovo a casa, isolato. Ho iniziato a fare dei piccoli acquarelli: ecco la pittura, quando e come nasce. In quel periodo andavo spesso in chiesa, perché c’era silenzio. Così sono passato dal dipingere i soldatini alle immaginette sacre. Mi chiesero se mi fosse piaciuto entrare in collegio dai Padri Salesiani e ne fui felice. Lì dov’ero tutto era raccolto, ma nel contempo distante, grazie a una disciplina precisa. Così ho potuto aprirmi agli altri. Realizzai un piccolo affresco di San Luigi Gonzaga: era la prima volta che facevo qualcosa per gli altri, non solo per me. Simbolicamente ero diventato un pittore. Tornato alla vita normale ho dovuto affrontare nuove difficoltà: da Torino ci siamo trasferiti a Bologna, ho iniziato a rendermi conto di alcune ingiustizie e i miei gesti sono diventati quelli di un antagonista. Ho fatto il servizio militare negli alpini, in luoghi ancora isolati. Tornato di nuovo alla realtà, ero ancora refrattario fisicamente. Mi capitò di vedere dei ragazzi inermi farsi picchiare dalla polizia, era il post ’68. Così, senza saperne i motivi, mi schierai dalla parte dei manifestanti. E cominciai a fare l’artista.
HK: Eri conscio della fine della pittura? GMM: Non è sufficiente per me rendermi conto che una cosa è sbagliata per non farla. La rappresentazione non è attuale? Pazienza. Non speravo niente dalla mia carriera d’artista se non un po’ di soldi per vivere. Potevo permettermi ogni libertà, soprattutto quella di essere inattuale. Nella rappresentazione ritrovavo il mio mondo cattolico, la mia infanzia; non m’importava che su tutti facesse l’impressione che fa una prostituta. Non procedo per intelligenza strategica ma per irresponsabilità. Anche sul versante politico: dal primo gesto che fu quello di entrare in una manifestazione, all’avventura che hanno voluto chiamare terrorista, al dovermi confrontare coi metodi dell’analisi marxista, fino a un gravissimo problema di coscienza terminato in un dissidio interiore. Tutto questo, come per l’arte, rispondeva alla necessità di identificare, da solo, il mondo e auto-nomare le cose.
HK: Quando è accaduto questo, nel ’77?
GMM: Il ’77 parte da Bologna, da Radio Alice. Poi lo abbiamo organizzato a Parigi, a casa di Guattari, dove mi trovavo con quelli scappati dall’Italia. Abbiamo scritto una lettera alla Conferenza di Belgrado per spiegare ciò che era avvenuto a Bologna contro i diritti dell’uomo; la Conferenza la diede ai giornalisti italiani ed è nato il casino: ci descrivevano come fascisti, la stampa italiana dava i numeri, soprattutto i comunisti che si sono costruiti un ’77 in casa.
HK: Poi ti sei trasferito per molto tempo a Parigi. Era una sorta di esilio?
GMM: Sì, anche se non comparabile con quello di altri. Erano state fatte leggi speciali, si poteva stare per cinque anni nelle carceri speciali in attesa di giudizio. Ma il tema dell’esilio per me è più complesso; non si tratta di Parigi, non solo. C’è un sogno, come dice Baudrillard, che percorre e marchia tutto: io nasco in esilio rispetto agli altri, basta pensare alla mia infanzia.
HK: Eri collegato con il gruppo di Toni Negri?
GMM: Soprattutto. C’erano due anime che venivano da Potere Operaio, una era il gruppo padovano riferibile a Toni. Noi eravamo favorevoli a un progetto autonomo, gli altri più propensi a trasformare Potere Operaio in partito.
HK: Cosa cambia per te nel momento in cui vieni accettato dal sistema dell’arte?
GMM: Sono stanco dell’esilio poetico, esistenziale e politico. Quello spirituale è una questione privata. Voglio tornare a casa mia, parlo della casa dell’Essere. Il sistema dell’arte è l’unica realtà che può permettermi di guadagnare i soldi per tornare a casa, lo so; eppure, per quel che è, il sistema dell’arte non lo capisco.
HK: Hai scritto che l’opera deve essere vuota…
GMM: Per poter essere piena, nel senso di gravida. Deve essere distante, chi la guarda deve fare tutto il cammino per avvicinarsi, come un amante che scopre che quel vuoto potrebbe diventare un pieno. C’è stato un momento in cui ho creduto che l’arte, pensavo però alla scrittura, fosse il male assoluto, poi mi sono ricordato che ogni persona porta in sé un mistero carico di dolore che può essere fecondato; ma si parte da lontano per arrivare a quest’incontro d’amore. L’amore, immediatamente, non unisce ma divide, poi, molto più in là, riunisce altrove.
HK: Oggi che le pratiche concettuali vengono utilizzate anche nell’economia, come si distingue un’opera da un oggetto di produzione?
GMM: Col coraggio di portare la croce dell’esilio, del Minore. L’inattuale non è facilmente sussumibile nella produzione. Così, forse, si può sfuggire alle strategie più o meno fatali del concettuale. Il supporto sensibile è sparito, sottratto e simulato dalle operazioni concettuali, ma la morte è sempre tremendamente fisica, esige il suo tributo di materialità sensibile.
HK: Da quello che dici e scrivi se ne deduce che consideri il critico centrale, a differenza di Duchamp che considera critico l’artista.
GMM: Sì, ma per critico io intendo quel che intende Duchamp. Non mi riferisco alla funzione burocratica, all’articolazione del potere, al critico che compila le classifiche degli artisti e produce saggetti scolastici per legittimare la propria funzione; mi rivolgo allo sguardo critico capace di penetrare l’opera vergine, che aspetta non di essere giudicata ma fecondata. Questo non lo può fare il mercato né lo sguardo del pubblico o del collezionista. Se poi questo sguardo oggi si è spento o si volge altrove, allora ha ragione Duchamp. Se non trovo un padre fecondo per le mie opere bambine, allora l’unico amante possibile sarà il padre-artista. Ma sarà soltanto un padre incestuoso.