Nei dipinti di Gianluca Di Pasquale è frequente la presenza di un doppio registro di situazioni: da un lato le zone di quiete, gli appezzamenti dedicati all’uniforme circolazione del colore, le riserve di una sorta di bianchezza originaria, le chiazze di una geologia in attesa di manomissioni, di riforestazioni, di insediamenti. Dall’altro, e in contrasto, la scrittura della pittura, oasi di vegetazione rigogliosa, presenze e corpi che si pongono come iscrizioni sullo sfondo inteso come pagina da riempire, come vuoto da colmare. Due istanze contrapposte, due horrores paralleli e simultanei: del vacuo e del ripieno: ora fare pagina, fare schermo… E poi, per contro, scompaginare la compatta trama dell’indeterminato con macchie, tocchi, svolazzi, spalmature, sfioramenti, vegetazioni, non solo di piante, ma anche di animali e di figure umane. Questa dialettica sfondo-iscrizione non appartiene solo al grado zero del paesaggio, nel momento in cui, da fondale impregiudicato, si popola di presenze vegetali e animali: questo schermo accogliente e bisognoso di essere cifrato e vergato di segni può essere un indumento, o una suppellettile, tutto ciò che si presenta come superficie neutrale, come luogo pittorico di un’attesa, di un’apertura al molteplice e al differenziato.
È lecito, in questi casi, parlare di dialettica di vuoto e di pieno, e della ricerca del loro equilibrio? Nella storia della pittura occidentale queste problematiche si sono affacciate, in parte, solo con le avanguardie, con le riflessioni di Klee, di Kandinskij, di Malevich (parallelamente alle considerazioni di Freud su Das Ding, poi sviluppate vertiginosamente da Lacan). Nei secoli precedenti si potevano considerare come termini oppositivi le coppie dialettiche luce-ombra, disegno-colore, linea-superficie, statica-dinamica… Se la scultura poteva ben essere il risultato di uno svuotamento e di una sottrazione, la pittura era comunque pensata come un’aggiunta progressiva, come un iter di pennellate volte a un potenziale riempimento di tutta quanta la superficie. Per una lettura più approfondita non tanto dello stile quanto dell’atteggiamento mentale, dell’animus di Gianluca Di Pasquale nei confronti della disciplina pittorica non potremmo allora volgerci più verso Oriente e prendere in prestito categorie da altre culture? Sia che si tratti di figure umane assorte e disperse in un limbo bianco, sia che una sola figura diventi schermo per il dispiegamento di una decorazione vegetale, sia che questa sovrabbondanza vegetale sia resa allo spazio di una foresta incantata, la pittura è evidenziata come una tendenza a riempire, come un apporto di dettagli e di presenze, che non può, però, fare a meno del vuoto. È grazie al vuoto che essa è in grado di approdare a quell’equilibrio dinamico che per Di Pasquale è lo scopo e il mezzo attraverso i quali essa si distacca dalla quotidianità e diventa ricerca di un mondo invisibile, di una recondita armonia. Così, secondo il pensiero sotteso alla pratica pittorica cinese, lo spazio cui si fa riferimento non è geometrico o misurabile, ma spazio in continuo movimento, nel quale opera la dialettica dei contrari, e in cui tutto è interconnesso. Quello che potrebbe essere il modello ispiratore della ricerca di Di Pasquale potremmo ravvisarlo in ciò che secondo Fritjof Capra rappresenta la “rete della vita”. E il riferimento all’autore de Il tao della fisica è legittimato dall’interesse che l’artista nutre da sempre per le scoperte e i risultati della fisica quantistica. Dipingere per Di Pasquale significa ascoltare e riflettere gli echi di una temperatura interiore, è come scandire un mantra tattile secondo i ritmi di una preghiera: la ripetizione del gesto diventa un movimento incantatorio. Il ritmo è un incantamento, ogni tratto è prefigurazione, sintesi, metonimia dell’insieme, del risultato finale: fra il suo conseguimento e il percorso che gli sta dietro, fra meta e avvicinamento a essa, c’è un rapporto dinamico, il tutto è pensato in equilibrio con ogni sua singola parte. Anche da questo punto di vista troviamo forse più appoggio in Oriente che non nella trattatistica e nella pratica sviluppatesi nella tradizione europea. La presenza, l’immanenza, anzi, della persona fisica del pittore nella sua opera: il percorso delle pennellate è anche il percorso di un soffio, di un élan che parte dal dentro, che si sostanzia attraverso il braccio, il polso, la mano. È stato Norman Bryson a puntualizzare il diverso rapporto che intercorre fra l’opera e la persona fisica dell’artista nella cultura artistica della Cina rispetto a quanto di regola è sempre accaduto nel mondo occidentale. Da noi il primato del logos ha sempre concesso poco spazio alla dimensione corporea, al respiro, al ritmo, che attraverso i nervi, i tendini, gli organi del pittore si comunica all’opera, che l’impregna in un unico circuito emozionale, che l’anima e la popola, che la fa divenire essa stessa mondo.
L’attesa (2013-2014) ci mostra una scena edenica, in un’atmosfera smemorata, bucolica, ambientata in un giardino tropicale attraversato da un corso d’acqua. È difficile non cedere alla tentazione di leggere questo dipinto, abbandonandosi al suo fascino esotico e alla sua dimensione fiabesca, come racconto sospeso, come storia incantata, come idillio tropicale, è difficile arrestarsi sulla soglia della rappresentazione. Ma è proprio sul limite di questa soglia che possiamo cogliere il senso profondo che l’artista ci vuole comunicare: certo, si vedono figure, fiori, vegetazioni… ma il vero racconto è a monte ed è, nello stesso tempo, oltre. Il vero racconto è narrato da una disciplina del tratto, da un alternarsi di respirazione che sostiene ogni pennellata, dal ritmo di cui tutto il tessuto pittorico è intriso. Perché le piante si mostrano tutte frontalmente, con ogni singola foglia tipografata come una scrittura spontanea della natura? Per lo stesso motivo, verrebbe da dire, per cui i fiori si mostrano distanziati e simmetrici sullo chemisier di Maddalena (2011). Per lo stesso motivo per cui in Costellazione (2005-2006) ci veniva mostrata una piazza metropolitana il cui spazio è come candeggiato, e alluso solo attraverso il ritmico sostare delle minuscole presenze umane, come se fosse un atlante celeste. Perché, sembra suggerirci Di Pasquale, la pittura è anche scrittura: mentre rappresenta, lascia anche una scia di segni da leggere come un alfabeto che rimanda a qualcosa che va oltre la scena, oltre il motivo rappresentato. In questo ultimo decennio in cui è maturata la sua attività, egli ha praticato la pittura cercando di andare ben oltre il suo aspetto referenziale: i cespugli che completano il vuoto scorrere dell’acqua e l’inavvertibile vacuità dell’aria, gli abitanti lillipuziani che costellano una distesa senza spessore, i fiori che danno vita e rilievo alle spalle e alle scapole di Maddalena, disegnano e designano tutti la stessa cosa. Ed è una cosa che non si presta a essere definita con spigoli taglienti e accerchiata in un significato univoco, e che, dobbiamo ripeterlo, solo con concetti tratti da altre tradizioni o da altre discipline può essere allusa e avvicinata. Chi scrive ha provato a farlo sforzandosi di stare in ascolto dei dipinti più che leggerli facendovi scorrere gli occhi. Perché uso questa metafora dell’ascolto? Per il semplice fatto che un dipinto come questo non chiede di essere decrittato per forza e per reiterazione di sguardi, a suon di colpi d’occhio, ma colto tutto insieme come le note di una sinfonia; chiede di essere letto come un libro formato da un’unica pagina cangiante, comprensibile solo se ogni sguardo sul particolare conserva la memoria dell’insieme. È una dialettica di vuoto e di pieno che tesse un reticolo di unità, di singoli tocchi, di movimenti traccianti che si raccolgono in una struttura unitaria in cui tutto circola: ogni traccia cromatica, anche se sembra scomparire nella ricostruzione sintetica che il nostro occhio è abituato a compiere, conserva la memoria della sua dinamica formativa, incorpora e testimonia un movimento che nasce dal corpo dell’artista e che entra in un rapporto di risonanza con tutte le tracce che la precedono e la seguiranno. È solo tenendo conto di tutto questo brulichio imprigionato nei singoli movimenti di pennello che possiamo accedere alla verità intrinseca del dipinto. Non dobbiamo dimenticare la presenza di questi singoli palpiti che vanno a formare un insieme relazionato e risonante. La scena che percepiamo compiutamente rappresentata, e che ci sembra di poter ricondurre al registro della nostra esperienza o della nostra memoria visiva, prende forma, energia ed equilibrio dal concorrere delle unità dinamiche che le sono sottese. Il felino appostato sull’albero, i fiori, le ragazze viste di schiena, le acque che scorrono lente, oltre a essere immagini che sollecitano in noi una comparazione con la realtà, entrano in un altro sistema di realtà che è il quadro stesso concepito come equilibrio, armonia, interconnessione di vuoti e di pieni. Per trovare punti d’appoggio a questa concezione, anzi a questa intenzione dell’artista, soccorre ancora la disciplina orientale, secondo cui la pittura tende a creare uno spazio medianico in cui l’uomo si ricongiunge e si raccorda alla corrente vitale. Questo è particolarmente evidente in un’opera come Hoi An (2011-2012), una grande tela in cui è delimitato un ovale al cui interno possiamo leggere il modello e la sintesi dell’equilibrio e dell’intima corrispondenza della vita interna del dipinto: attraverso l’interagire di terra, acqua e aria, le linee di forza si bilanciano in un delinearsi orizzontale di riflessi e di echi che sospendono il tempo e rendono fluidi e intercambiabili i rapporti spaziali, e in un controritmo verticale di striature e scie, come un flusso di disfacimento, il tracciato prodotto dalle lacrimae rerum, ma da intendere anche come uno scorrere e uno sgocciolare di linfe, un ininterrotto trasudare di umori vitali.