Marco Tagliafierro: Premettendo, come tu stesso sottolinei, che un artista ama la storia dell’arte e cerca di fare l’arte che non esiste e vorrebbe che esistesse, in te sembrano convivere due personalità: la prima sembra volta al raggiungimento della forma ideale, l’altra, invece, sembra agire nella convinzione che questa forma ideale sia irraggiungibile, inconquistabile. Sei d’accordo?
Gianni Piacentino: Credo che la “forma ideale” nell’arte o nella tecnica non nasca solo da presupposti teorici, ma sia di volta in volta variabile, anche storicamente ed emotivamente. Non un punto fermo (anche se qualche “punto” è più fermo di altri) ma una serie di punti fermi che non si annullano l’un l’altro.
MT: In che tipo di rapporto collocheresti il tuo lavoro rispetto alla funzionalità che appartiene invece agli oggetti del design?
GP: L’arte non ha funzioni se non forse quelle di stimolare il modo di vedere e possibilmente di pensare (tralasciando i fattori emotivi: piacere, passione, suggestioni). Forse sono metafore decorative di oggetti funzionali (tavoli, veicoli, ali) sicuramente costruite con particolare attenzione all’estetica della tecnica.
MT: Ragionando su un’estetica della tecnologia, sembra che tu operi per evidenziarne i limiti, cosa ne pensi?
GP: Qualsiasi tecnologia riconosce i propri limiti, l’estetica è uno di questi.
MT: Il fatto che le tue sculture, spesso, appoggino su dei supporti, può essere letto in questo senso?
GP: Deriva dal fatto di quanto mi è piaciuto farle, ovviamente lavorandole appoggiate su due cavalletti, per ritornare ai “punti fermi” nel procedimento di ogni “fare” (arte, tecnica).
MT: Sei d’accordo sul fatto che l’oggetto, per quante analogie si vogliano stabilire, non è un’immagine? Anche se certamente è un segno! (Forse, essendo un’entità materiale, deve essere definito all’interno della sua configurazione, cioè all’interno di un processo di significazione, per cui una cosa che serve a un determinato uso nel contempo è qualcosa che è impiegata per il segno che quel qualcosa stesso intende).
GP: Non amo l’arte simbolica: mi piace che l’oggetto arte sia in competizione con l’oggetto reale come presenza e forza emotiva (concorrono soprattutto dimensioni e colore), e che sia considerato un oggetto reale che non rimanda ad altro (niente letterarietà dell’arte).
MT: Ha senso discutere sul concetto di prototipo nell’ambito di un dibattito esclusivamente artistico?
GP: Direi proprio di no, a meno di considerare le innumerevoli scopiazzature nell’arte contemporanea.
MT: Come è stato possibile concepire un percorso di ricerca tra Minimal e Arte Povera?
GP: Questa è una domanda da fare a uno storico dell’arte. Io ho fatto e faccio unicamente il mio lavoro. Ecco alcuni fatti al riguardo: quando ho realizzato i miei primi lavori (tele monocrome e telai colorati, 1965; pali, portali, tavoli, 1966) nessuno in Europa sapeva del “Minimal”. L’interesse nei confronti del mio lavoro, da parte di Vincenzo Sperone, avvenne attraverso la mediazione di Ileana Sonnabend che visitò il mio studio nel 1965 e parlò di strani lavori di geometria astratta e radicale che stavano nascendo negli USA in reazione all’atmosfera pop dominante. Ho partecipato a tutte le prime mostre di Arte Povera perché Celant considerò (a mio parere con lungimiranza) l’arte nuova e radicale che nasceva intorno alla Galleria Sperone, pur chiarendone le differenze individuali. Solo in seguito l’Arte Povera acquistò una connotazione stilisticamente totalizzante e omogenea, ma io avevo già preso altre strade (o meglio, piste).
Arianna Rosica: Sono passati molti anni dalla tua ultima intervista in Flash Art (n°165, 1992, a cura di Giacinto Di Pietrantonio). Da allora è cambiato qualcosa nel tuo lavoro?
GP: Le idee nel lavoro vanno sempre avanti. È cambiato qualcosa nella progettazione e nella realizzazione (CAD-CAM) e nella chimica delle vernici, quindi nei procedimenti applicativi.
AR: Dai tuoi esordi il mondo dell’arte ha avuto e continua ad avere continue e molteplici trasformazioni. Come vivi tutto questo?
GP: Sinceramente non mi interessa molto, anche se non è difficile leggere i motivi di molte trasformazioni; in genere, hanno poco a che fare con l’arte.
AR: Il tuo studio — mi dicono sia molto bello — è frequentato da giovani artisti? Segui con interesse il lavoro di qualche giovane? Se sì, quali?
GP: No, l’arte attuale, giovane, spesso mi ricorda cose che conosco e ho vissuto e sostanzialmente mi annoia. E poi noi eravamo giovani a 20 anni, non a 35 o 40. Aspetto sempre che qualcuno mi faccia cambiare idea.
AR: Ravvedi un tuo possibile erede?
GP: La storia del mio lavoro è un po’ strana e un’eredità sarebbe difficilmente individuabile.
AR: Se dovessi ripercorrere la storia dell’arte italiana e non degli ultimi anni, a tuo giudizio quali sono gli artisti sottovalutati e perché?
GP: Credo che il problema sia quello degli artisti sopravvalutati, che non sono pochi (magari ci sono anch’io).
AR: Come ti trovi a Torino? Quali cambiamenti puoi riscontrare nella città rispetto ai tuoi esordi?
GP: Per me è influente lo spazio “interno”, cioè quello del mio studio, la città non conta granché. Fortunatamente facciamo un lavoro che, se va bene, vive nel mondo. Certo a Torino è più piacevole vivere adesso che allora, ma non credo che sia positivo per la nascita di arte importante.
AR: In che rapporti eri con gli altri artisti dell’Arte Povera?
GP: All’inizio eravamo tutti molto amici. Specie con Michelangelo Pistoletto (mi aiutò a montare la mia mostra da Sperone nel ’66) e con Giulio Paolini. Io ero l’esperto di verniciatura (realizzai verniciature particolari per Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Paolini). Poi fatalmente, con il progredire delle “carriere” individuali, ci siamo persi. Salvo poi incontrarsi con molto piacere in occasione di mostre.