Pubblicato originariamente su Flash Art Italia no. 92-93 Ottobre − Novembre 1979
Il mio è un problema d’arte
Helena Kontova: La prima azione di Gina Pane Pietre spostate in cui l’artista sposta alcune pietre da un luogo a un altro è del luglio 1968. Successivamente per due anni esegue azioni e installazioni nella natura, come ad esempio Terra protetta o Modificazione costante del suolo dalle ore 12 alle 20, o Continuazione di una strada di bosco. Che cosa dunque ha spinto l’artista a lasciare il suo studio dove dapprima dipingeva e scolpiva, per trasferirsi nella natura?
Gina Pane: Io rispondevo così alla somma delle istanze che avevano messo in dubbio l’estetica di quanto andavo facendo. A questa decisione però sono pervenuta lentamente. Infatti quando facevo la pittura ero arrivata al punto di lasciare cadere il pennello sulla tela. Sentivo che lo strumento era solo protesi. Per me è stata una scelta tra il fare l’arte critica o decorativa. Ho scelto di fare l’arte critica. Ma solo alla base, come in un triangolo sono i lati che ne definiscono il vertice.
Il corpo come mezzo di espressione artistica
HK: Gina Pane ha usato dapprima il proprio corpo come strumento con cui compiva azioni nella natura, dopo il 1969 invece il corpo è diventato mezzo di espressione.
GP: Dunque corpo è diventato strumento, supporto assoluto. Le cose si sono però trasformate in seguito, come quando ho fatto l’azione 2 Projet du Silence (1970) dove il corpo è stato usato come espressione del pericolo. Nello stesso tempo il corpo è diventato uno spazio per soffrire, per sentire tutto il complesso dell’emotività, della paura, dell’angoscia.
La ferita come segno
HK: Dal 1971 l’immagine principale delle azioni di Gina Pane è diventata la ferita, che a lei interessa come segno del suo linguaggio.
GP: Alla fine non mi interessa la quantità di dolore ma il linguaggio dei segni. Il mio problema infatti è di stabilire un linguaggio attraverso questa ferita che diventa segno. Altro elemento importante per me è quello di comunicare attraverso la ferita la perdita dell’energia. E in tale contesto la sofferenza fisica non è soltanto un problema personale ma un problema di linguaggio. L’atto del ferirmi rappresenta un gesto temporale, un gesto psicovisuale che lascia tracce. È un gesto di rottura e apertura, ma non è un fatto religioso, anche se ho ripetuto cosi tante volte lo stesso gesto. All’inizio tutta l’azione era localizzata su questo gesto semplice. Dopo il 1972-73 ho cominciato a unirlo ad altri gesti che allucinavano ancora di più il gesto della ferita o mi distanziavano dalla ferita. E questa mia distanza dalla ferita ha rappresentato una volontà molto cosciente di costruire un linguaggio più complesso.
L’azione e lo spazio
HK: Gina Pane dopo il 1970 torna dallo spazio-natura aperto allo spazio chiuso della galleria o dello studio. La sua prima azione in cui si ferisce – Escalade (1971) – è stata eseguita dapprima nello studio di fronte a pochi amici, quindi nella galleria. Gina spiega la sua metamorfosi di abbandonare lo spazio dove ha operato per quasi due anni.
GP: Nello spazio aperto mi trovavo in una posizione solitaria, cioè mi mancava la comunicazione e questa per me non era un’alternativa poiché non potevo costruire e riflettere la mia immagine del corpo.
Tempo reale e metafora
GP: Uso la metafora, il tempo narrativo, plastico e immaginario. La costruzione di una azione parte dal concetto di uno spazio, forma, segni colorati, ferita, oggetti. E tutte queste cose hanno anche una esistenzareale e io le uso anche in questo senso. L’esistenza fisica e il nostro corpo ci condizionano in tutto ciò che facciamo. Ma nello stesso momento tutte queste cose che io uso nelle azioni possono evocare qualcos’altro. La mia azione Little Journey (1978) è stata un viaggio immaginario dentro la stanza con le finestre chiuse. Ad esempio ho usato una piccola barca di carta che serviva a suggerire agli spettatori l’impressione del viaggio. Esattamente come fanno i bambini a cui si racconta una favola. Tutta l’azione racconta i pericoli che i “viaggiatori” dovevano accettare come loro tributo alla libertà. La ma ferita dentro questa azione e in altre si potrebbe spiegare come l’atto magico che operavano i medici-guaritori nella Grecia antica quando “ripetevano” le ferite che volevano guarire sui loro stessi corpi.
I linguaggi paralleli
HK: Gina Pane ha sempre usato anche altri linguaggi parallelamente alle azioni. Anche le sue foto non sono mai solo documenti ma un linguaggio autonomo, un aspetto dell’azione.
GP: Le mie foto sono particolarmente studiate e ricercate, anche per questo lavoro sempre con la stessa fotografa. Françoise Masson. Dapprima preparo i disegni per lei su come prendere le foto, da quale angolazione, che cosa puntualizzare. Dopo scelgo accuratamente quelle che corrispondono maggiormente al mio progetto. Per le mie foto è importante anche il colore, il tono deve corrispondere al concetto dell’azione. Ho scritto anche dei testi sul problema del colore nelle mie azioni. Assieme alle azioni e alle foto ho usato altri mezzi come il disegno, oggetti, gouache, il video. Non uso ad esempio il video per registrare solo le mie azioni ma come spazio narrativo o plastico nell’azione. Narrativo quando implica un’azione fatta in altro tempo, plastico quando è simultaneo all’azione.
Performance non è un termine specifico
HK: Gina Pane non usa il termine performance per parlare del suo lavoro. Lei parla sempre di azioni e di arte corporale.
GP: La parola performance è ormai diventata come la parola arte. Il suo significato è molto generale, troppo vasto, significa troppe cose. Il termine performer è come il termine artista. Oggi bisogna specificare l’attività di ogni performer. Nel senso specifico io mi considero una bodyartist, faccio azioni, atti corporali, implico il linguaggio del corpo.
Come si insegna la body art
HK: Gina Pane ha sempre cercato di analizzare il suo lavoro, spesso anche in senso didattico. Non è stato pertanto difficile per lei tenere dei corsi sulla performance, come è avvenuto quest’anno al Beaubourg. Gina così descrive la sua esperienza.
GP: Al corso hanno partecipato quindici/venti persone, ma anche il pubblico che assisteva ogni lezione, almeno quaranta persone. Ho dapprima parlato della performance in modo molto generico e non ho lavorato come un’insegnante bensì come un’artista che ha una determinata esperienza in questo campo. Nello stesso tempo ho cercato di essere meno personale possibile rispondendo solo alle domande che mi venivano poste sul mio lavoro. Ho preparato esercizi per i partecipanti che ho fatto sperimentare con il loro proprio corpo. Ad esempio dovevano difendere il loro spazio dapprima stabilito con il loro corpo.
La performance ha cambiato l’arte
HK: Quali sono i risultati del processo di trasformazione degli ultimi anni nell’arte che a un certo momento ha fatto quasi credere a una soppiantata funzione della pittura e scultura?
GP: Mi interessa portare l’arte nell’altro sistema della percezione. Il corpo diventa l’idea stessa mentre prima era solo un trasmettitore di idee. C’è tutto un ampio territorio da investigare. Da qui si può entrare in altri spazi, ad esempio dall’arte alla vita, il corpo non è più rappresentazione ma trasformazione. Tutta la nostra cultura è basata sulla rappresentazione del corpo. La performance non annulla la pittura bensì si assisterà alla nascita di una pittura nuova sulla base dell’altra spiegazione e funzione del corpo nell’arte.