Intorno alla metà degli anni Settanta, Gina Pane è al culmine della sua attività artistica. Nel giro di pochi anni passa dai suoi minimi e potentissimi gesti “in vivo” nella natura, eseguiti dal 1968, alla blessure, la ferita, praticata dal 1972 su alcune parti del suo corpo, come elemento centrale di complesse performance. Da quel momento le azioni che includono la ferita proseguiranno fino al 1979 e andranno a costituire le basi di un fare artistico del tutto nuovo nell’ambito performativo che, nell’eludere qualsiasi effetto di spettacolarizzazione e forma di teatralizzazione, è ben rappresentato dalla formula “corpo come linguaggio”, l’espressione sistematizzata da Lea Vergine nel suo omonimo libro del 19741.
Con un certo anticipo sui tempi, il testo della studiosa napoletana prepara il terreno a diversi contributi dedicati alla performance, anche sul piano internazionale. Tra questi, un ruolo di particolare rilievo è occupato da Flash Art. Dal 1978, infatti, l’edizione internazionale della rivista propone la rubrica Flash Art Performance, a cura di Helena Kontova, uno spazio interamente dedicato a performance e body art in cui, oltre a un’attenta ricognizione su mostre ed eventi performativi di varia natura, appaiono anche numerosi contributi critici di autori come Roselee Goldberg, François Pluchart, Jürgen Schilling, Hugh Adams e molti altri.
All’interno di questo circuito, Gina Pane è tra le artiste maggiormente osservate, anche perché piuttosto attiva sulla scena artistica italiana. Su Flash Art le sue performance sono recensite con regolarità – la stessa Kontova, molto legata all’artista, pubblica interviste e approfondimenti sul suo lavoro – mentre la Galleria Diagramma (Milano), lo Studio Morra (Napoli) e la Multimedia (Brescia) le dedicano personali, così come il Museo d’Arte Moderna di Bologna, dove Gina Pane, il 30 ottobre del 1976, tiene la sua prima azione pensata per uno spazio museale: Io mescolo tutto: Cocaina, Frà Angelico2.
Nell’analizzare quest’azione, il primo spunto di riflessione è offerto dal titolo che, nella prima parte, pone l’accento sulla volontà dell’artista-soggetto di sovvertire la gerarchia delle principali componenti del suo lavoro, quali pittura e gestualità, e di mostrare la capacità di queste ultime di fondersi ed evolvere l’una nell’altra. Sia la pittura che il gesto (in questo caso quello tipico della ferita) non devono essere considerati linguaggi a sé stanti e di per sé significanti. La ferita diventa segno aperto per attivare un dialogo tra artista e pubblico, senza essere finalizzata alla manifestazione di un dolore per lo più percepito genericamente: “Alla fine non mi interessa la quantità di dolore,” afferma l’artista, “ma il linguaggio dei segni, il mio problema infatti è di stabilire un linguaggio attraverso questa ferita che diventa segno”3.
La pittura, invece, intesa come immagine liberata dai suoi attributi storici, iconografici e istituzionali, può finalmente tradursi in “azione”. A questo proposito, nei suoi testi preparatori a Io mescolo tutto, Gina Pane riprende alcune riflessioni di Giulio Carlo Argan e rileva un interessante aspetto della pittura di Beato Angelico, oggetto della performance bolognese. Secondo l’artista, il pittore toscano “dipinge delle azioni e non un pezzo di muro o tela o altro in un’architettura data”4. In un altro scritto, l’artista prosegue le sue considerazioni sull’idea di pittura rendendo quel “mescolo tutto” quasi una dichiarazione d’intenti:
Il concetto di linearità nella pratica pittorica è diventato inconsistente. Io critico e rifiuto questa pratica. La pratica dell’azione non può essere trattata nella sua analisi da un solo giudizio che sia sociale, politico, filosofico o fisiologico, ecc… Il “IO MESCOLO TUTTO” deve anche potersi applicare alla pratica del Museo e a quella della Critica, altrimenti il risultato sarà “raccogliere le briciole” ed esprimere un pensiero vuoto privo di articolazioni5.
Nella seconda parte del titolo, la “pittura-azione” di Beato Angelico è messa in relazione alla cocaina: “Cocaina-Frà Angelico è il rivelatore di un ‘quasi’ dell’uno e dell’altro che si influenzano nella ricerca del paradiso: il viaggio”6.
Nella complessa immagine del Cristo Deriso (1438-40), il dipinto di Beato Angelico a cui l’azione si ispira infatti, appare un Cristo bendato che evoca la visione introspettiva del soggetto imposta dall’occultamento della vista. Le piccole mani che ghermiscono oggetti intorno al busto della divinità sembrano suggerire quello che mente e corpo percepiscono, ma i suoi occhi non vedono: avrebbe potuto Beato Angelico dipingere qualcosa come uno stato di coscienza alterato da una presunta dimensione mistica ed estatica allo stesso tempo prendendosi ogni libertà dall’iconografia religiosa? E in ogni caso sarebbe stata la sua o quella di Cristo? Come si evince già da questa prima analisi del titolo, la performance presenta, simultaneamente, una struttura articolata sul piano visivo, gestuale e narrativo: un viaggio “psicovisuale” che coinvolge in un “corpo transindividuale”7 performer e spettatore. Nella prima fase dell’azione l’artista è al centro dello spazio, seduta su uno sgabello in modo da formare col corpo una diagonale (il petto e le braccia rivolte a sinistra, le gambe, tese e parallele, a destra). Il braccio sinistro le consente di mantenersi in equilibrio, mentre con la mano destra tiene un cucchiaino pieno di polvere bianca. È vestita di bianco e indossa occhiali ricoperti di feltro dello stesso colore. La sala del museo dove si svolge l’azione è occupata sulla destra da una dozzina di casette in legno policromo, senza porte né finestre, dalle forme geometriche elementari. Su un filo che corre da un lato all’altro dello spazio sono sospese le parole “COCAINA FRA ANGELICO”. Oltre all’artista, sulla scena appaiono due performer: un giovane e una fanciulla, seduti l’uno di fronte all’altra, ai due estremi del tavolo, con le braccia davanti a sé e il volto ricoperto di bianco. I due alternano istanti di immobilità a uno scambio di palleggi a ping pong.
In un secondo momento, Gina Pane è sdraiata supina sul pavimento, con le gambe piegate e i piedi appoggiati contro una lastra di vetro rettangolare posta nell’angolo destro della stanza. Le sue mani si muovono all’altezza del petto. Poi, all’improvviso, le luci si spengono e l’artista con un colpo secco dei piedi rompe il vetro in mille pezzi, producendo un forte rumore. Quando le luci si riaccendono Gina Pane è a terra in posizione fetale. Si alza e si dirige verso un angolo della stanza dove inizia a giocare con una delle casette che si trovano sul pavimento. Dopo questa azione si siede a gambe incrociate in posizione raccolta, andandosi a collocare davanti a una lampadina, posta all’altezza dei suoi occhiali, che emette una luce azzurra. In seguito, si avvicina al piccolo villaggio di casette in miniatura e con la mano sinistra ne afferra una rossa. Nella mano destra stringe la lama di un rasoio con la quale si incide l’avambraccio “disegnando” un triangolo rosso. Infine, porta il braccio ferito davanti agli occhi coprendoli e mostrando al pubblico i due rivoli paralleli di sangue che sgorgano dalla ferita8.
Sebbene la pittura di Beato Angelico sia un riferimento centrale della performance, non è tuttavia l’unico. Nella fase conclusiva dell’azione emerge anche un’assonanza con l’orizzonte filosofico della ricerca di Kazimir Malevič che, nella formazione del percorso artistico di Gina Pane, ha svolto un ruolo centrale. Incidendo sulla sua pelle un triangolo, l’artista riproduce una forma geometrica simbolo della sessualità femminile e simbolo di una parte del suo stesso corpo, lei stessa afferma: “un triangolo della forma simile al mio sesso ma esso stesso di carne (nozione di pittorialità trasformata in perforazione dell’essere)”9.
Il richiamo a Malevič si iscrive proprio in questa ripetizione della forma geometrica: il “doppio triangolo” di Gina Pane può infatti alludere al noto “doppio quadrato” dell’artista russo. Tra i due si giocano così assonanze e differenze riguardo al riferimento alle due forme geometriche, alla materia su cui sono inscritte (la tela, un corpo), ma anche al fatto che questi due gesti (pittorico e fisico) rivelano diversi gradi di integrazione del pensiero nella materia, svelando il forte dualismo tra queste due dimensioni. Il concetto di “perforazione dell’essere” evocato da Gina Pane, inoltre, si sposa con il gesto fisico della ferita che rappresenta un’apertura verso l’altro, l’esterno, ma anche uno scavare a fondo, all’interno, per entrare in uno stato profondo della psiche, passando attraverso la rottura del vetro-cornice che idealmente è anche una soglia tra razionale e irrazionale, conscio inconscio, e che potremmo definire come un primo tentativo di “defenestrazione dell’io”. Il percorso che si produce tra questi due passaggi, la “defenestrazione” e la “perforazione” dell’io, è il “viaggio”, come già suggerito dai gesti prodotti dall’esperienza dell’estasi, dall’eccitamento e dalla trance data in egual misura dalla droga e dalla visione mistico-religiosa, entrambe pulsioni psicofisiche interne che si manifestano, come afferma l’artista, con “il massimo dell’energia dentro una durata quasi nulla”, tendenti cioè quasi all’immobilismo “(minimo dell’energia per una durata massimale)”10.
Nella polisensorialità data dall’alterazione dello stato mentale, tempo e gestualità sono praticamente simmetrici nella loro apparente staticità e scanditi solo dall’esterno: il tempo dai due performer che, seduti a un capo e all’altro del tavolo, giocano a ping pong con la cadenza simile a quella di un metronomo; la gestualità dall’equilibrio precario dato dall’estensione e contrazione degli arti simile a quanto avviene in Psyché (1974), Action Laure (1977) o A Hot Afternoon (1977). Nell’atmosfera ieratica e sospesa, la rottura del vetro e l’incisione nella carne rappresentano, infine, due momenti di forte intensità che non devono essere intesi come obiettivi dell’azione, bensì come segni che compongono un linguaggio condiviso oltre la parola. “Gina Pane lavora sulla messa tra parentesi del gesto determinato, finalizzato e, dunque, sulla neutralizzazione di un corpo che definisce soggettivamente l’azione”11, in nome di quello che François Pluchart definiva, in quel momento storico, come un “corpo socializzato” dove “ogni ferita infertagli è pure una ferita inferta alla società. […] Gina Pane orienta chiaramente il senso di lettura del discorso e dunque maneggia un’arma terribilmente potente, un’arma che va a inserirsi, per disturbarla, all’interno della struttura sociale”12.
Ogni azione dell’artista si sostiene, così, su una struttura che ruota attorno alla deduzione segnica del gesto compiuto fisicamente: il processo linguistico che mette in atto nelle sue performance è “un processo metonimico [che] ricollega l’azione alla sensazione, il soggettivo al collettivo, il corpo al contesto, il tempo al racconto”13. È per questo che assumere ancora la nozione di “corpo come linguaggio” oggi ci impone di attraversare peso, sostanza e fibra della “cosa corporale” (ma quale corpo?), e di arrivare alla “cosa pensata”, in estensione e profondità, come qualcosa che appartenga tanto al mondo del linguaggio (ma quale linguaggio?) quanto alla possibilità di pensare la mente stessa oltre il genere, il contesto e forse anche la specie.