C’è qualcosa di veramente personale nell’assidua frequentazione delle architetture abbandonate di Giorgio Andreotta Calò L’artista ne ha vissuto, non subito, il fascino fin da bambino.
Il silenzio di quei luoghi ha sempre stimolato in lui la riflessione sulla natura simbolica dei segni architettonici. Il confronto con il paesaggio e con l’architettura, considerata come parte di esso, trova spazio anche nei suoi studi all’Accademia di Belle Arti, assestandosi nelle sue speculazioni estetiche come sviluppo dell’indagine sulla scultura, in particolare nella relazione fisica spettatore/oggetto. Amplificando questo rapporto, è giunto a considerare l’architettura come un oggetto esorbitato. Nell’intervento realizzato a Napoli (It, 2005) è stato proprio un edificio in abbandono l’oggetto su cui lavorare, sottolineando il suo impatto visivo nell’ambito dello skyline attraverso l’impiego di elementi immateriali quali la luce e il suono, portati a un’iperbolica dilatazione per le dimensioni dell’intervento e del palazzo. A Sarajevo, osservando il movimento del sole rispetto a una torre di cemento armato dilaniata dai bombardamenti, ha intuito la possibilità, poi realizzata (Dal tramonto all’alba, 2006), di ricreare attraverso l’impiego di alcuni potenti fari la luce dell’orizzonte, proprio sulle due facciate opposte est/ovest, a esprimere la sospensione spazio-temporale che la condizione di precarietà di quel paese esprimeva nella fase post-bellica. Proporre una nuova lettura dell’ambiente nel quale ci si trova a operare non vuol dire per Andreotta Calò necessariamente riferirsi alla sua storia, questo avviene solo quando i segni che ci rimandano a essa sono in grado di evocarne i passaggi salienti; nel caso di Sei, il lavoro realizzato in un ex ospedale psichiatrico in Sardegna, la presenza-assenza dei pazienti che vi avevano risieduto era, a suo dire, così forte da non poter esimersi dal significarne il passaggio, elaborandone le tracce lasciate sul posto. Altre volte, invece, lo spazio sul quale si è trovato a riflettere si è dimostrato privo di caratterizzazioni storiche lasciandolo libero di dargli un altro significato, direttamente conseguente al primo impatto visivo. Non c’è nessuna attitudine alla rigida programmazione nel metodo impiegato da Giorgio Andreotta Calò, egli è interessato a soffermarsi su ogni tappa del processo che lo porta a rappresentare l’idea iniziale per valutare di volta in volta come metabolizzare gli imprevisti e le difficoltà incontrate nel relazionarsi con un ambiente e con le sue qualità peculiari. Come nella primavera del 2008 quando, trovandosi a lavorare in un ex garage per il progetto Uovo Open Office, decise, a sorpresa, di riferirsi a esperienze precedenti che lui stesso aveva vissuto in luoghi affini per esprimere le visioni che proprio quel luogo gli richiamava alla mente.