Esattamente cento anni fa, un piroscafo dell’impresa Pirelli, all’epoca impegnata nell’installazione di cavi telegrafici sottomarini che mettevano in comunicazione le Isole del Mediterraneo, naufragò sulle coste di Filicudi durante una spedizione. Il relitto, battezzato col nome di “Città di Milano”, anni dopo rinvenuto e filmato da un gruppo di sommozzatori, è oggi materiale di documentazione conservato negli archivi Pirelli HangarBicocca e compone assieme ad altri reperti il parco archeologico sottomarino di Capo Graziano.
Inizia non a caso dal mare, dagli abissi liquidi della terra, la perlustrazione artistica di Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979; vive e lavora tra l’Italia e l’Olanda), che ancora una volta parte da una geografia per ricostruire una geometria fatta di tempi scolpiti e corrosi, riconfigurati nella sua mostra personale “CITTÀDIMILANO”, presentata all’Hangar Bicocca lo scorso febbraio 2019.
Milano non è solo il luogo che ospita questa mostra, ma anche un riferimento fisico ed emozionale, che la nutre e la completa assieme ad altre città.
Il video del piroscafo, che prende il nome dal comandante della spedizione morto durante il naufragio (Senza titolo, Jona, 2019) recuperato dagli archivi e proiettato all’inizio del percorso apre la strada a orizzonti semantici e concettuali che hanno attraversato gli ultimi quindici anni della ricerca di Giorgio Andreotta Calò (GAC) e dialoga con la riproduzione fotografica della “vera” Milano, posta sull’accesso diametralmente opposto all’ingresso principale dello Shed. Si tratta di una veduta di Milano dall’alto, raccontata anche dalle parole dello scrittore Luciano Bianciardi ne La vita agra (1962), e poi immortalata nelle pupille di Tognazzi nell’omonimo film del ‘64 quando cospira contro la società industriale neo-capitalista degli anni Sessanta, dai piani alti del “Torracchione”, alias “Pirellone”.
Punto di vista privilegiato per lanciare uno sguardo a perdita d’occhio sul versante Nord Est della città, l’ultimo piano del grattacielo Pirelli, è diventato la camera oscura che, lasciando filtrare un raggio di luce dall’unica vetrata scoperta, ha permesso di impressionare su carta fotosensibile predisposta, un’immagine capovolta della veduta esterna (Città di Milano, 2019). Il cielo, reso plumbeo dall’impressione fotografica, diventa la base su cui poggia un pezzo di urbanità, dove le estremità degli edifici bucano la massa nerastra, e terra e cielo si scambiano di posto. Lambrate in lontananza, oltre il tunnel della stazione, sembra ancora avvolta dal manto di nebbia del boom industriale, anche se le fabbriche ormai sono tutte chiuse. Sono quei capannoni vuoti e inattivi, che sbracciano in cerca di riscatto anche nel video Volver (2008), una navigazione in volo, che l’artista svolge a bordo della sua barca appesa al gancio della gru di un cantiere di Lambrate, in occasione della sua prima mostra personale alla Galleria Zero… di Milano nel 2008.
La stessa barca che per anni ha rappresentato il mezzo di esplorazione della laguna di Venezia, oggi all’Hangar Bicocca diventa il sarcofago di una memoria eterna che si riposa dalle fatiche di un lungo viaggio riportandoci all’indietro di un tempo. Ragionare sul senso di una città, sull’appartenenza a un luogo e sul suo possibile attraversamento, diviene in GAC quasi un esercizio di “meditazione laica”. È la pratica che lo conduce al lavoro, sia essa traducibile poi in azione, scultura o intervento architettonico. Camminare percorrendo lunghe distanze, in solitudine o assieme a cittadini o minatori (Ritorno, 2011; Genova – Ventimiglia – Genova, 2013; In girum imus nocte et consumimur igni, 2014); incendiare palazzi trasformandoli in monumenti temporanei (Monumento ai caduti, Bologna, 2010; 22 luglio 1912 – 22 luglio 2012, Bari, 2012); lavorare in cava per apprendere il procedimento di estrazione di un blocco di marmo per poi trasformarlo in scultura, (Per ogni lavoratore morto, Carrara, 2010) sono tutte azioni che compongono un processo meditativo che l’artista vive come esperienza personale e reale. In questo senso la pratica diventa il gesto da cui il lavoro prende forma, un atteggiamento a tratti maniacale che cerca nella poetica dell’esperienza diretta le sincronie e le coincidenze non casuali.
In girum imus nocte, 2014. Pellicola 120. Fotografia scattata presso vivaio ittico di Stagno Cirrdu,
Isola di Sant’Antioco, Sardegna. Fotografia di Nuvola Ravera. Courtesy Studio Giorgio Andreotta Calò.L’ascensione cui ci ha condotto a Venezia durante la Biennale del 2017, nello spazio centrale del Padiglione Italia, procedeva per movimenti lenti e accorti su un’impalcatura scalare verso quella porzione di Arsenale biblicamente scura, dove anche l’occhio più sognante faceva fatica ad abituarsi. Senza Titolo (La fine del mondo) (2017) non presentava solo la scansione fisica di un doppio mondo magico, fatto di profondità e levitazione, ma anche la dimensione simbolica di un emisfero umano evanescente, quasi sfocato nel riflesso amplificato di uno specchio d’acqua.
La dimensione umana nella pratica di GAC, è infatti spesso assimilabile a una fantasmagoria di ombre visibili solo a intermittenza. Macchie che alludono a presenze, come quelle lambite dalle fiamme rosse di fumogeni a mano, mossi sulle superfici di vetro dell’architettura del Nuovo Comune di Bologna nell’azione Monumento ai caduti, 2010. In altri casi invece, si manifestano in lontananza, coperte di tenebre e illuminate a tratti dalle torce dei minatori (In girum imus nocte et consumimur igni, 2014).
La complessità della natura e insieme dell’antropomorfismo, sono protagoniste di un immaginario che ci porta a riconoscere il nostro posto nell’universo e in modo più indiretto, a individuare la nostra responsabilità nei suoi confronti. L’attenzione dell’artista si rivolge intimamente più alle alchimie generate dagli elementi, che alla loro formalizzazione. Acqua, fuoco, terra, legno e metallo acquisiscono un ruolo fondante nel lavoro, proprio per il loro potenziale simbolico e generativo, conducendo spesso a un “prima” e a un “dopo” di un’esistenza.
La serie Clessidre che GAC realizza dal 1999, nasce a seguito di un’esperienza visiva: il fenomeno di erosione che il movimento della marea genera sull’asse verticale dei pali di legno piantati nella laguna di Venezia e il loro riflettersi sull’acqua. Questa scultura in bronzo, che prende le sembianze di una clessidra, è la cristallizzazione di un fenomeno oltre che l’affermazione visiva del tempo.
La suddivisione su due piani determinata spesso da una immaginaria linea dell’orizzonte che divide un alto dal basso, il sotto e il sopra del livello del mare, porta a uno sdoppiamento quasi speculare dall’azione alla sua rappresentazione. Prima che sia notte, l’intervento pensato per il MAXXI di Roma nel 2012, funziona simbolicamente allo stesso modo. Il foro stenopeico ricreato dentro la sala sporgente dell’architettura di Zaha Hadid, proietta una porzione del quartiere Flaminio di fronte al museo. Ma questa volta l’impressione è in movimento, non si blocca, si muove di continuo in un tempo reale grazie al suo riflettersi sull’acqua versata sul pavimento. Quello cui assistiamo è sì la metamorfosi di un paesaggio urbano fuori dal museo, ma anche la sublimazione di un tempo presente costante, che cambia senza dirci come e quando.
Ogni percorso che GAC crea, sia esso il risultato di una ricerca formale, fisica o empirica, è la negoziazione prima individuale e poi collettiva, fra discesa e ascesa, fra l’azione di affondare e quella di riemergere dal profondo di una dimensione.
I Carotaggi (Produttivo, 2019) sdraiati sul pavimento della mostra “CITTÀDIMILANO”, attraversano lo spazio dell’Hangar Bicocca in tutta la sua lunghezza. Sono sculture vere e proprie e, prima ancora, campioni di roccia dalla forma cilindrica e allungata. Al contempo restituiscono l’immagine di un tempo geologico che supera quello umano.
In Sardegna, nella zona del Sulcis, che ha rappresentato per l’artista un’altra tappa importante del suo emisfero psicogeografico, gli stessi carotaggi riportati a Milano, sono stati utilizzati dalla Carbosulcis (ultima miniera attiva in Italia, chiusa definitivamente nel 2017) per localizzare i giacimenti di carbone, raggiungendo spesso profondità di oltre 400 metri sotto il livello del mare. Nello Shed dell’Hangar, seguono una gradazione cromatica che ci invita a ripercorrere un viaggio nel sottosuolo, simile a quello dei minatori, oppure, su un piano psicoanalitico, a ritroso nella coscienza.
La visione prospettica qui è abbassata, portata rasoterra su un unico livello. La riemersione dal sottosuolo, che nell’Arsenale di Venezia avveniva mediante l’esperienza fisica della gradinata, qui è suggerita a livello immaginativo. Un cammino in salita percepito mentalmente, che riempie la distanza che si crea, da un lato, tra il video sul ritrovamento del relitto e, dall’altro, la veduta di Milano dall’alto del Pirellone. In questo modo fra il fondo del mare di Filicudi e il cielo di Milano, si insinua un percorso lungo tanto quanto la stratigrafia compiuta in origine dai carotaggi, ma orizzontale e arbitrario nella scelta delle rotte e delle soste.
Salire e discendere racchiudono la circolarità di un processo, attivato spesso dall’esperienza fisica del camminare.
I minatori in penombra nelle scure sequenze del film In girum imus nocte et consumimur igni (2014) girato in 16mm, sono un gruppo di ex lavoratori della Carbosulcis, coinvolti dall’artista in un’azione corale svoltasi dal tramonto all’alba durante la notte di Santa Barbara, patrona di pompieri e artificieri.
Mentre camminano verso Sant’Antioco, l’isola collegata alla terraferma tramite un istmo artificiale, i minatori ritrovano il senso di una collettività. Escono insieme da un buco sottoterra per tendere verso la luce.
Un passo all’unisono cadenzato anche dalle scintille di una barca che brucia, sulla spiaggia del vivaio ittico di Stagno di Cirdu. Chiuso fra le fiamme, si consuma così il rito dei pellegrini, che sfilano silenziosi per rendere omaggio alla Santa, ma anche quello degli operai, che marciano compatti in segno di protesta.
Nonostante tutte le opere di GAC siano sempre riconducibili a una poetica dell’allegoria, spesso si consolidano anche per il loro germe politico.
Proprio quest’ultimo aspetto, aperto a diverse interpretazioni, restituisce in modo più incisivo l’aderenza ad una narrazione che si fa finzione e realismo al tempo stesso.
Lungo una strada apparentemente senza fine, scavata in un mondo deserto dove il cielo è oscurato da un velo di polvere e dove non è raro incontrare resti di carne umana in putrefazione, un uomo e un bambino senza nome camminano senza tregua verso una destinazione ignota.
“Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco”.
Sono le parole che Cormac McCarthy mette in bocca a un padre e al figlio, nell’ apocalittico libro La strada (Einaudi, Torino 2007). Non conosco esattamente il motivo per cui, ogni volta che rifletto sul lavoro di GAC, penso a questo capolavoro. Forse perché associo la sua pratica a un tentativo costante di trattare vita e morte nella loro trasparente e quotidiana contiguità. Un principio ciclico di origine e trasformazione che sulla strada percorsa dall’adulto e dal bambino di McCarthy, così come in quella percorsa dai minatori, si consuma con consapevolezza. Non c’è nessuna forma di cinismo in questa apocalisse, piuttosto qualcosa che assomiglia a una rinascita.