Giancarlo Politi: Caro Giorgio, tu assieme a Gianfranco Gorgoni, Claudio Abate, Paolo Mussat Sartor e, negli USA, Harry Shunk, siete stati i veri testimoni dell’arte (e in qualche caso anche compagni di viaggio di artisti) di una generazione, quella degli anni Sessanta-Settanta. Quali sono stati gli artisti a cui ti sei sentito più vicino?
Giorgio Colombo: Sono molti gli artisti che hanno stimolato il mio interesse nei confronti delle vicende dell’arte, con alcuni ho avuto anche un grande rapporto di amicizia. Mi mancano molto Alighiero Boetti e Luciano Fabro.
GP: Nelle tue scelte sei stato piuttosto selettivo, per non dire elitario. In particolare, almeno mi sembra, il tuo grande amore è stata l’Arte Povera e alcune propaggini da essa derivanti. Invece per il resto, compresa la Transavanguardia, ti ho visto demotivato. Come mai questa scelta di percorso?
GC: Il primo importante incontro è stato alla Biennale di Venezia nel 1964, con l’arte americana, in particolare Jasper Johns e Robert Rauschenberg. Successivamente con l’Arte Povera. Frequentavo la Galleria Toselli, che in quel momento promuoveva nuove idee. Ricordo il felice incontro con Boetti nel 1970. Ho subito percepito l’inizio di una fase evolutiva dell’arte, che portava a un coinvolgimento attivo, un fenomeno tipicamente italiano ma ben sintonizzato con l’arte concettuale e minimal. Nelle mostre di Toselli, ma anche di Sperone a Torino, di Sargentini a Roma, di Amelio a Napoli, di Marilena Bonomo a Bari, erano sapientemente mescolate le proposte degli italiani e degli stranieri, in particolare gli americani. Il clima di quegli anni è ancora ben vivo nei miei ricordi e credo anche nelle mie fotografie. Non ho trascurato di seguire anche le altre vicende dell’arte, ma sicuramente con meno coinvolgimento sul piano emotivo. La Transavanguardia all’inizio ha prodotto opere di qualità, poi mi pare che ci sia stata un’involuzione. Il ritorno alla pittura ha reso apparentemente più comprensibile alla gran parte del collezionismo le opere più vicine al gesto che al pensiero. Con gli allora giovani protagonisti della Transavanguardia ho avuto una buona frequentazione anche perché le loro prime opere erano di derivazione concettuale. Per motivi geografici, i contatti si sono poi ridotti ma anche per una diversa visione del lavoro.
GP: Secondo te, come è cambiata la tua professione e l’approccio con l’arte e gli artisti, dopo quaranta anni e più?
GC: Il mio modo di lavorare non è cambiato molto, è cambiata la professione, non solo per l’avvento del digitale, è venuta a mancare la commitenza, la ricerca della qualità, questo ha creato i presupposti per la crescita della fotografia come prodotto artistico. Il sistema dell’arte è cambiato, gli artisti hanno scoperto il marketing. La fotografia dell’arte si è adeguata alla globalizzazione, alla superficialità nella rappresentazione del prodotto, a una minore attenzione al reale significato delle opere.
GP: Quali sono i tuoi rimpianti? Chi ti sarebbe piaciuto incontrare sul piano del lavoro ma per qualche ragione non sei riuscito?
GC: Il maggior rimpianto è quello di avere incontrato Lucio Fontana solo un mese prima della sua scomparsa, a Comabbio con Ugo Mulas e Achille Mauri. Dovevamo discutere il libro che stavamo preparando e che purtroppo non ha potuto vedere finito. Un libro ora molto ricercato dai bibliofili.
GP: So che da qualche tempo ti stai occupando di ordinare e informatizzare il tuo archivio e di commercializzare il tuo lavoro storico. Ma segui ancora qualche artista? E se sì, chi?
GC: Con l’avvento dei primi personal computer ho iniziato a informatizzare il mio archivio, ritengo questa fase di grande importanza. È stato un lavoro lungo, faticoso e costoso. Dopo oltre 25 anni c’è ancora molto lavoro da fare, ma la fase più difficile è superata. Avere documentato le vicende dell’arte degli anni passati è stato molto importante, ma è solo in tempi recenti che questo lavoro viene diffuso con più attenzione, quindi la conservazione e la diffusione di quanto è stato fatto diventa determinante. Continuo a seguire il lavoro degli artisti del passato, e seguo con interesse anche il presente se merita attenzione. Ci sono giovani artisti che hanno le qualità ma, forse ancora più che nel passato, è difficile emergere. La mia attenzione verso i nuovi sviluppi dell’arte non si è ridotta ma vedo che molte opere proposte oggi ricordano spesso le opere del passato.
GP: Ti sei caratterizzato per una sorta di “fedeltà” alla tua generazione. Ma non ti viene il desiderio di avvicinarti a qualche nuovo e giovane artista di 25-30 anni?
GC: La mia “fedeltà” coincide con quello che mi ha coinvolto di più e che ritenevo giusto documentare per il futuro. Seguo sempre con molto interesse il lavoro dei giovani e per quanto mi è possible li sostengo. A differenza del passato ora ci sono più artisti e le scelte di chi merita attenzione sono diventate più difficili. Da anni guardo più alle opere che non agli autori. Nel tempo l’opera bella cresce ma è difficile capirne subito il valore artistico, da non confondere con il valore commerciale.
GP: Qualche tuo collega si sta proponendo come artista, commercializzando il suo lavoro di fotografo, al punto che foto delle opere di Gino De Dominicis o di Jannis Kounellis, o i loro ritratti, vengono esposte in mostre come opere del fotografo, in qualche caso diventando una sorta di clone dell’originale. E queste mostre stanno entrando nelle gallerie d’arte. Tu hai mai pensato di proporti come artista con una foto di un arazzo di Boetti o un igloo di Mario Merz?
GC: Ritengo che la fotografia di opere d’arte abbia la funzione di trasmettere il pensiero dell’artista, quando c’è l’impossibilità di vedere l’opera dal vero. Il mezzo giusto per la diffusione è il canale editoriale. Naturalmente c’è modo e modo di fotografare l’arte, talvolta il bravo fotografo è un valore aggiunto. Per i ritratti o le situazioni particolari, penso che si possa parlare di autonomia, è quindi lecito considerare la fotografia un prodotto artistico. Trovo invece eccessivo il diffondersi delle fotografie “creative” di questi ultimi anni. Nelle rare mostre che ho fatto, ho presentato prevalentemente ritratti degli artisti e non le loro opere, salvo rappresentazioni particolari del loro lavoro nella fase di realizzazione. Naturalmente non ha senso esporre la foto di un arazzo di Boetti ma lui davanti alla sua prima Mappa un senso ce l’ha, così come la foto di Mario Merz che realizza il suo igloo sul barcone alla Biennale di Venezia nel 1972. Gino De Dominicis non accettava la riproduzione delle sue opere, ma solo perché non voleva che fosse trasmessa una visione distorta del suo lavoro. Io ho avuto il privilegio di ricevere, direttamente da lui, l’incarico di fotografare le sue installazioni e ho sempre rispettato il suo pensiero. Fotografare l’arte non è appropriarsi del lavoro dell’artista ma condividerne lo spirito e diffonderne la conoscenza.
GP: Con l’avvento del digitale non pensi che il vostro lavoro abbia perduto di intensità e in qulche caso di necessità? Ora qualsiasi ragazzotto con una macchina digitale riesce a ottenere risultati (almeno sul piano tecnico) che a voi costavano lavoro e sudore. Ti ricordo alle Biennali o a documenta, affaticato dalle tue macchine e dai cavalletti che trasportavi nella mostra. Lavori ancora così, oppure anche tu ormai ti affidi alla piccola macchina digitale?
GC: Intensità e necessità sono rimaste le stesse. Il digitale è solo un’evoluzione tecnologica. Quello che ancora conta è la testa del fotografo. Non c’è grande differenza tra una fotocamera meccanica e una digitale, salvo la scheda elettronica invece della pellicola. Per un risultato finale di qualità, anche col digitale, dopo lo scatto c’è ancora molto lavoro da fare. La fase dello sviluppo viene sostituita dalla post produzione al computer, e anche in questo caso conta molto la professionalità. Anche adesso la differenza tra un dilettante e un professionista si vede, purtroppo è l’utente finale che guarda meno alla qualità e più al costo. Le mie spedizioni verso le grandi rassegne erano veramente faticose, ma mi ha sempre sostenuto l’energia trasmessa dalle opere e l’incontro con gli artisti. Naturalmente mi sono adeguato alla nuova tecnologia. Uno dei vantaggi è che non si devono portare più di due macchine, vari obiettivi e molte pellicole, il cavalletto è ancora parte del mio bagaglio. In qualche occasione meno importante, riesco a lavorare con una piccola ma sofisticata macchina digitale che sta comodamente in tasca con batteria di scorta e schede di memoria.