Personalità tra le più discrete e isolate del gruppo di artisti che alla fine degli anni Sessanta gravitavano attorno alla galleria di Gian Enzo Sperone, Giorgio Griffa si dedica fin dagli esordi esclusivamente alla pittura. Nel 1960, dopo un decennio di pratica pittorica figurativa, si iscrive ai corsi privati di Filippo Scroppo1, un artista astratto che organizza una scuola di pittura nel proprio atelier. La sua vera formazione avviene tuttavia a contatto con gli artisti torinesi della sua generazione, che conosce presto grazie ad Aldo Mondino. Oltre a quest’ultimo, l’altro suo punto di riferimento fondamentale è il critico d’arte Paolo Fossati2, il quale presenta3 la sua prima mostra personale presso la Galleria Martano nel 1968.
L’anno successivo Griffa espone con una personale da Gian Enzo Sperone e comincia a frequentare più assiduamente gli artisti della galleria. La sintonia maggiore la sente per Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio e Giuseppe Penone. Come ha dichiarato egli stesso in diverse occasioni:“mi sono reso conto che la cosa che più mi intrigava in quegli anni era il fatto che loro lavoravano sull’intelligenza della materia — ponevano cioè le basi perché fosse la materia stessa con la sua intelligenza a eseguire il lavoro — e io credevo nell’intelligenza della pittura. Mi limitavo ad appoggiare il colore sul supporto”4.
Proprio tra il 1967 ed il 1968 Giorgio Griffa pone le basi del suo linguaggio pittorico, elaborando quel metodo di lavoro che caratterizza ancora oggi la sua pratica: la tela grezza (iuta, canapa, cotone o lino) e senza cornice, viene disposta sul pavimento ad assorbire il colore, nella maggior parte dei casi tinte stemperate con acqua, cioè acrilici, tempere e acquerelli. La tela deve essere lavorata in piano, stesa sul pavimento, per evitare che il colore molto fluido coli verso il basso. L’assenza della cornice consente all’artista di camminare liberamente sui diversi tessuti, spesso di grandi dimensioni.
Abbandonato ogni elemento figurativo, nel corso degli anni Sessanta aveva praticato una pittura figurativa in stile pop, il segno pittorico si riduce in modo radicale: diventa traccia, linea, segno anonimo tracciato con il pennello o con una spugna. La tela cessa di essere il ricettacolo di un’immagine compiuta, un luogo definitivo, e diventa frammento fisico di uno spazio discontinuo e in espansione. Il metodo di lavoro è semplice ma anche rigoroso: l’artista sceglie ogni volta le componenti elementari del suo intervento. Data la misura della tela e il tipo di pennello (sottile, largo, la spugna ecc.) si tratta di scegliere la larghezza e la lunghezza dei segni, e quindi il loro ritmo e la loro direzione. Il momento successivo è rappresentato dalla decisione relativa al “luogo” di inizio di questi segni. Molto spesso l’artista comincia a tracciare i segni partendo in alto a sinistra, come avviene quando si scrive, ma il lavoro può cominciare indifferentemente anche da destra verso sinistra, oppure anche dal basso verso l’alto. La pittura quindi non invade la tela secondo un progetto globale ma è destinata a riempire lo spazio poco a poco seguendo la direzione, il ritmo, la frequenza scelta. La stesura del colore avviene in uno stato che l’artista stesso definisce di “concentrazione passiva5”: la mano e la mente seguono con il massimo di attenzione quanto avviene sulla tela. Il tempo e il modo della stesura variano di opera in opera, e sono direttamente legati al tipo di pasta del colore (più o meno liquido), al tipo di pennello e al tipo di tela. I mezzi diventano i protagonisti dell’opera, ne determinano il tempo di realizzazione, il ritmo, il risultato finale.
Da questo momento, collocabile appunto tra il 1967 ed il 1968 fino alle sue opere più recenti, tutta la ricerca di Griffa si fonda quindi su tre coordinate fondamentali: il ritmo, la sequenza e il segno. Il lavoro di Griffa, per diversi aspetti accostabile al Minimalismo, all’Arte Povera e alla Pittura analitica, è in realtà difficilmente inquadrabile in una tendenza specifica. Il suo è un percorso autonomo, frutto di una pratica coerente e solitaria. La sua opera ci appare seducente e al tempo stesso inafferrabile. Io credo che questa “inafferrabilità” dell’opera di Griffa dipenda da una serie di contraddizioni che l’attraversano6. I suoi segni apparentemente anonimi configurano in realtà una cifra stilistica precisa, una “lingua” per nulla anonima; il procedimento di realizzazione dell’opera si basa su un impianto razionale, su una sorta di protocollo, ma il risultato è invece sottilmente lirico; l’opera è intenzionalmente aperta eppure i quadri ci appaiono compiuti e autonomi. Lo standard del procedimento incontra l’aleatorietà del caso e la squisita sensibilità pittorica dell’artista; da questo proviene, io credo, il fascino della sua pittura. Per quanto mentale e minimale nei presupposti quella di Giorgio Griffa non è una indagine di tipo “analitico” sulla pittura e la sua storia, al contrario è una pratica di partecipazione alla costruzione del reale, è una pittura che non rappresenta ma che esiste, diventa traccia umana al pari di tutti i segni tracciati prima di essa, a partire da quelli trovati nelle grotte del Paleolitico.
L’assenza di questa intenzione “analitica” viene confermata “a posteriori” proprio dallo sviluppo del lavoro, nei decenni Ottanta e Novanta, quando i segni assumono una maggiore complessità ma anche una funzione più liberamente decorativa, quasi barocca rispetto all’estrema riduzione formale messa in atto alla fine degli anni Sessanta. Un volta stabilite le regole grammaticali di base, la lingua si presta ora a un racconto più articolato e libero, alla declinazione di segni di origine diversa. Griffa accosta in questa fase pattern decorativi inediti, come linee ondulate, linee spezzate, greche, arabeschi, piccole punte cuneiformi, semi cerchi, fregi ondulati ecc., arrivando spesso a dipingere anche lo sfondo sul quale si stagliano i segni. Questo libero “narrare” di segni sulla tela avviene secondo raffinate scelte tonali, tipiche di un artista attento alla calda materialità della pittura più che all’idea o al concetto. Giorgio Griffa è un pittore “puro” in questo senso, cioè un pittore del fenomeno, un pittore “tradizionale” come in più occasioni si è definito lui stesso. La gamma cromatica, tra colori complementari e mezzi toni, così elegante e ormai così tipica del suo lavoro, Griffa sembra attingerla dal Rinascimento e dalla pittura veneta del Cinquecento e del Seicento. L’altro riferimento fondamentale è poi Matisse, il pittore della felicità del colore e dell’immagine come tensione equilibrata tra segni e colori. In particolar modo Griffa guarda all’ultimo Matisse, con la sua riduzione radicale degli elementi del linguaggio visivo: il colore piatto, la pura superficie, l’autonomia del contorno.
I numeri compaiono nella sua opera prima per elencare le diverse tele di uno stesso ciclo7, poi per segnalare l’ordine con il quale i segni venivano distruibuiti sulla tela, e infine con riferimento alla sezione aurea, l’unità di misura della perfezione e dell’ignoto. Il rapporto aureo produce un numero che non finisce mai: 1,61803398874989… eccetera, procede per sempre, sino alla fine del tempo. Il numero aureo, inoltre, non procede neppure di un millimetro nello spazio, infatti 1,618 non diventerà mai 1,619 e così via. Fin dai tempi di Orfeo questo numero rappresenta la metafora del compito lasciato all’arte, alla poesia, alla musica: discendere nell’ignoto e dire l’indicibile. Questo è — secondo Griffa — anche il compito della pittura, non rappresentare il mondo ma conoscerlo, partecipare alla sua costruzione: io non “rappresento”, io “dipingo” ha dichiarato l’artista stesso.