Laura Cherubini: Cominciamo parlando di questa casa della via Gluck…
Giovanni Ciapessoni: La casa della via Gluck esisteva già prima che arrivassi a Milano ed era sempre stata frequentata da artisti, molto spesso studenti dell’Accademia di Brera, in particolare del corso di Alberto Garutti. Era una casa molto grande, su due piani, un ex studio fotografico. Lavoravamo lì, suonavamo e facevamo delle serate di improvvisazione.
LC: Tu inventi strumenti. Prima invece ne suonavi uno preciso?
GC: Prima di arrivare a Brera ho frequentato la scuola di liuteria, quindi sono un liutaio. Ho sempre sperimentato, usando sia elementi acustici sia l’elettronica. Utilizzo svariati mezzi: chitarra elettrica, neon, oggetti d’uso quotidiano e vecchi strumenti musicali. Di solito applico dei microfoni a contatto e, percuotendoli e toccandoli con l’archetto del violino, creo suoni e rumori che in seguito vengono modificati con altre apparecchiature.
LC: Come definiresti il tuo lavoro?
GC: Si tratta di una sperimentazione che ha origine dalla musica elettroacustica. Ascoltare la registrazione però non ha molto senso. I miei lavori sono vere e proprie performance, da vedere, per via del neon e delle luci.
LC: Costruisci tutti gli strumenti?
GC: Alcune cose le compro, altre le modifi co o le costruisco io. Mentre suono mi capita di modifi care gli oggetti che uso. Per esempio, il neon è nato semplicemente per illuminare l’ambiente mentre suonavo, poi mi sono accorto che emanava vibrazioni che venivano catturate dal microfono e modifi cate. Allora ho deciso di agire sul neon e di crearvi all’interno dei circuiti, qualcosa che potesse modifi care ulteriormente il suono.
LC: C’è una partitura? Il computer, per esempio, dà la possibilità di visualizzazione del suono che prima non c’era.
GC: Ci sono strumenti musicali sofisticatissimi che lo permettono. Una partitura sarebbe troppo vincolante, invece è bello che la performance sia aperta. C’è una linea, ma sulla base di questa ci si muove continuamente. È un po’ quello che succede nel jazz: c’è una linea guida e c’è il solista che fa l’assolo, che non è mai lo stesso e comunque non è mai trascritto.
LC: Da dove viene la tua idea di disegno-scrittura e come si ricollega al resto del lavoro?
GC: Proviene dalle trascrizioni dei miei pensieri su quaderni, con una scrittura complessa e difficile da leggere. Anche in questo caso vi è una forte improvvisazione.
LC: Gli strumenti che costruisci o fai realizzare costituiscono delle opere? Oppure il tuo lavoro è rappresentato solamente dalla performance?
GC: Il lavoro è la performance; non ho mai pensato di esporre gli strumenti da soli. Le mie azioni sono strettamente legate alla presenza di altre persone nella stanza. In caso contrario, l’opera non esiste. È importante studiare anche il luogo, per esempio, in una chiesa sconsacrata ho fatto un’improvvisazione con l’organo, che poi ho modificato al computer e diffuso nell’ambiente.
LC: Perché ritieni il tuo lavoro specifico per l’arte visiva? È l’atteggiamento che ne fa un lavoro d’arte più che di musica?
GC: Questa è una cosa che ho sempre discusso anche con Alberto Garutti. È musica, ma l’atteggiamento non cambia. Uno dei miei lavori è una fotografia che mi ritrae mentre vado in barca. È una critica nei confronti dell’arte, per non dire più “faccio arte”, ma “vivo l’arte”.