Giovanni Giaretta: Dopo il mio invito per questa conversazione abbiamo deciso di incontrarci nelle sale del Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi. Ci siamo dati appuntamento per passeggiare insieme tra le serre, gli scheletri di animali e dinosauri, i fossili e i minerali. Io vado spesso a camminare al Museo di Storia Naturale di Milano. La sezione che preferisco è quella dedicata ai diorami. Mi piace la dimensione di una scenografia che tenta di ricreare una realtà naturale. Adoro questo risultato finale fittizio e artificioso.
Ariane Michel: Anche a me piacciono molto i diorami, perché mirano sempre a una verità nella messa in scena, senza però mai riuscire a ottenerla. Paradossalmente, è proprio il carattere imperfetto del decoro che rafforza la sensazione di una verità del corpo esposto. È impossibile fare una rappresentazione tanto veritiera di un’intera situazione, e il diorama sembra funzionare piuttosto come un decoro che rivela la realtà attraverso un effetto di contrappunto.
GG: Osservando la costruzione di queste scene mi vengono sempre in mente gli effetti speciali dei vecchi film di fantascienza di serie B, o le pellicole di viaggi fantastici in mondi sconosciuti o di mitologie inventate, tanto in voga tra gli anni Sessanta e Settanta. Ti accorgi che quella scenografia non è più credibile. Questo fallimento, questa imperfezione la trasforma in un’altra cosa. Io inizio a osservarle come sculture attivate dalla macchina da presa.
AM: C’è poi uno strano senso di commozione a cui induce il diorama, e sembra proprio risiedere nella sua mancanza e insufficienza. Mi vengono in mente alcuni diorami che ho visto al Museo di Storia Naturale di Ulan Bator, in Mongolia, che rappresentavano il fondo del mare con colori molto accesi, non trattati, come se fossero appena usciti dai tubetti di pittura. Sicuramente molte persone lì non hanno mai avuto la possibilità di vedere il mare. Magari lo scenografo che ha scelto le tinte e i toni voleva andare incontro al gusto locale, utilizzando i colori più belli e rappresentativi della sua cultura. Infine, il diorama appare come un elemento estremamente adatto a pensare alla relazione tra rappresentazione e realtà. In un diorama, l’animale che si presenta al centro della scenografia è morto. Se fosse da solo, circondato dal vuoto, potrebbe creare nello spettatore un sentimento di angoscia. Forse la missione della pittura è, in questo specifico caso, quella di proporre un’immagine, un senso di spazio autentico, aggiungere la vitalità che manca al corpo naturalizzato. Ed è così che la decorazione diventa essa stessa testimonianza di un gesto: quello dell’uomo che ha costruito la scenografia del luogo. Scelte magari stravaganti che ci fanno sorridere, di un sorriso vivace, anche se ci troviamo davanti a un corpo morto. Tutto questo mi pare importante.
GG: Osservando i fossili del Dipartimento di Paleontologia, penso al fatto che sono dei resti. È la stessa sensazione che si ha quando ci si trova davanti alle rovine di un’architettura e ci si sforza di immaginarla e di riempirne il vuoto. Non riuscendo a ottenere un’immagine precisa di com’era, ne immaginiamo una nuova, completamente nostra. Una personale proiezione mentale.
AM: A me piace molto — forse ancora di più — la presenza della cosa reale in se stessa. Il fatto che sia di volta in volta totalmente inimmaginabile. Prendi, per esempio, questi dinosauri che vediamo radunati nella galleria del Museo di Paleontologia: sono scheletri esposti insieme, nient’altro.
Guarda com’è incredibile la forma di questa testa, pare ci sia un capello posato sopra! E queste squame enormi… una volta erano parte di esseri viventi! Noi non possiamo ricostruire il mondo di quell’epoca, però abbiamo la prova che tutto ciò è realmente esistito sul nostro suolo. Non è affascinante pensarlo? Per noi che siamo circondati da immagini e rappresentazioni, qui si apre una porta in un mondo ambivalente, da un lato immaginario e dall’altro legato al suo essere resto di qualcosa che è veramente stato. Possiamo quasi toccare un mondo fantastico senza dover aggiungere altro. Questo ci guida verso una proprietà della natura, della verità: la natura è portatrice intrinseca della fantasia. In questo Museo la realtà è Science Fiction. Nel video La Cave, che ho esposto a Milano al Centre Culturel Français, credo si possa trovare un’illustrazione quasi letterale di questo concetto. Un uomo, in una caverna innevata in Siberia, scioglie il ghiaccio che ha congelato per secoli un mammut. Benché sia tutto vero e senza nessun artificio, si ha l’impressione di essere davanti a una scena tratta da un film di Georges Lucas. È un paradosso che mi piace molto.
GG: Conosci la leggenda delle zanne del narvalo? In questo momento ne abbiamo uno davanti a noi. Tra il XV e quasi fino all’inizio del XVII secolo questo cetaceo veniva pescato nei mari del Nord, nelle colonie vichinghe in Groenlandia e Islanda e portato da alcuni commercianti nelle corti europee. Esposto poi nelle camere delle meraviglie, acquistava un nuovo significato: non più resto di un cetaceo vivente, ma legittima prova dell’esistenza di un animale fantastico, l’unicorno. Penso allo sguardo delle persone che tramutavano quell’oggetto da reperto naturale in qualcosa appartenente a un mondo fiabesco. Si dice che anche la leggenda dei ciclopi potrebbe essere nata grazie ad alcuni ritrovamenti fossili di elefanti nani, vissuti in Sicilia nell’era paleolitica. Se osservi il grande buco centrale del cranio di questo elefante — che non è altro che il foro nasale — non è difficile immaginare che il fossile sia il cranio di giganteschi uomini con un solo occhio. Anche in questo caso la realtà incontra la Science Fiction.
AM: Sì, però c’è qualcosa di diverso. In questi casi il reperto diventa una specie di tramite per l’immaginazione, che così inventa un’altra cosa.
GG: C’è una frase in Specie di spazi di Georges Perec a cui penso spesso: “Il letto diventava la capanna dei cacciatori di pellicce, o il canotto di salvataggio sull’oceano infuriato, o il baobab dell’incendio, la tenda piantata nel deserto, l’anfratto propizio a qualche centimetro dal quale passavano i nemici con le pive nel sacco. Ho fatto molti viaggi in fondo al letto, mi portavo per sopravvivere delle zollette di zucchero che andavo a rubare in cucina e che nascondevo sotto il cuscino (come prudeva!). La paura, perfino il terrore era sempre presente, nonostante la protezione del guanciale”. Tutto dipende dallo sguardo. Forse è possibile immaginare un film d’avventura da girare sotto il proprio letto…
AM: Il potere dell’immaginazione è enorme e può scaturire da minimi dettagli — come queste piccole ossa stese di fronte a noi — come da un cambiamento di scala o di punto di vista. Mi viene in mente il tuo lavoro, Luna, dove usi un semplice specchio da barba che si trasforma poi in uno strumento astronomico, un rudimentale proiettore. L’immaginazione si nutre di elementi che sono stimoli per la mente, entità astratte che si possono catturare per poi trasformarle in storie meravigliose. Questo meccanismo non lascia conoscere fino in fondo la mutazione della cosa. È un processo oscuro. Tornando alla leggenda dell’unicorno, forse è il risultato finale di un lavoro a maglia tra un viaggiatore, un commerciante e un alchimista. Tutto ciò mi fa pensare a una separazione che da lungo tempo fa la critica cinematografica francese, dividendo nettamente in due fasi la storia del cinema: da una parte lo sguardo dei fratelli Lumière che registrano la realtà, e dall’altra quello degli eredi di Georges Méliès che mirano a creare illusioni. Io credo che registrare la realtà possa provocare una sensazione di meraviglia. È precisamente sul limite che separa questi due approcci che mi interessa lavorare.
GG: Mi ricordo che anche alcuni corsi di storia del cinema all’università partivano proprio da questa divisione. Ma in fondo le illusioni di Georges Méliès funzionano oggi come documenti delle visioni utopistiche di quell’epoca. Anche a me piace riflettere e lavorare sul limite tra questi due approcci. Un film che amo molto è Häxan. La stregoneria attraverso i secoli (1922) di Benjamin Christensen. Inizialmente doveva essere un documentario sulla storia della stregoneria. Alla fine ne è uscito un sogno — o forse un incubo. È una collezione di visioni sorprendenti. Non a caso il film fu molto amato dai surrealisti.
AM: Tutto questo sorpassa la questione del documentario o della finzione. Una cosa incredibile può sorgere dal vero e può essere semplicemente filmata in un modo speciale. Non intendo dire che la devi cambiare, ma solo guardarla da un nuovo punto di vista. Questo porta a interrogarsi sulla relazione che ognuno ha con la realtà che lo circonda. Io credo che l’osservazione e la rappresentazione del mondo siano ancora oggi qualcosa di vitale.
GG: Forse abbiamo scelto di conversare al Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi proprio perché questo luogo è una soglia che registra una realtà passata e lascia aperta la possibilità di un approccio fantastico. Ci si può far guidare nella minuziosa e scientifica classificazione di questi fossili o reperti vari. Ma si può anche sfuggire alla rigida catalogazione e lasciar posare lo sguardo su piccoli dettagli, senza nemmeno leggere le didascalie. Pescando dalle varie teche e vetrine è infatti possibile creare un proprio ordine, una sequenza di montaggio. Non dico che siamo come in un cinema… anche se appena entrati nelle serre ho avuto la sensazione di essere in Indiana Jones e il tempio maledetto. Stiamo forse camminando in un film?
AM: Certo, con un continuo mescolarsi di realtà e di messa in scena. Andiamo, Giovanni, continuiamo a passeggiare…
GG: Andiamo dunque. Fuori nevica e in questa serra siamo stati di colpo catapultati in un microclima della Guyana francese. Più avanti un bambino gioca con un albero pietrificato e tagliato proveniente dall’Arizona. Visto così pare proprio un tavolo levigato e intarsiato. Se avessimo più tempo potremmo andare al Parc des Buttes Chaumont. Oltre la finta cascata, la grotta ricostruita e l’arroccato tempietto della Sibilla, è pieno zeppo di cacciatori domenicali di misteri. Esoterismo da fine settimana.