Senza Titolo (Oggetti dipinti) (2009) segna ad oggi uno dei passaggi più poetici del percorso di Giovanni Oberti: conservata in una teca di vetro come un raro cimelio, un’arancia modellata dal tempo diventa una preziosa scultura dipinta. Essiccata e ricoperta di grafite, quasi protetta da una pesante patina di bronzo, sembra avere una seconda pelle. Attraverso segni raffinati, silenziosi e precisi, Oberti ci ricorda quanto la valutazione di cose o situazioni non possa essere ridotta semplicemente alla loro superficie.
Il percorso artistico del giovane artista di origine bergamasca procede tra oggetti che hanno catturato la sua attenzione e luoghi di cui ha fatto esperienza. I suoi racconti indagano la quotidianità con interventi che vanno dal togliere all’aggiungere, dallo sfocare al concentrarsi su quello che esiste negli interstizi a margine delle azioni principali. Come un sottile filo rosso, emerge dalle sue opere il tentativo di dare forma al tempo stratificato della memoria e alla vita delle cose comuni, sempre risolto con un’economia di gesti: poggia a terra una pietra in granito raccolta per le strade di Göteborg, simbolo di costruzione e distruzione per essere stata usata più volte come arma durante manifestazioni; investe il budget messo a disposizione da un’agenzia di comunicazione — per la realizzazione di un’opera — nella creazione di un foglio d’oro formato A4; nasconde nel muro di una galleria un chiodo d’oro lungo 12 cm di cui si intravede solo la capocchia sporgente.
Al centro della sua attuale ricerca è il lampadario ready-made trovato nella sua prima casa milanese, poi spostato di volta in volta nelle case abitate (Senza Titolo. Simultaneità di luoghi, di tutti i paesi che sappiamo…, 2008). Segnato dal lento stratificarsi della polvere, l’oggetto sembra conservare memoria di tutti i luoghi in cui è stato usato. Allo stesso modo in Senza Titolo (Forks, Dust) (2006-2008) la polvere racconta il tempo delle cose, quasi a svelarne la cronologia, e conserva le tracce del processo che l’ha determinata, creando un cortocircuito fra presente, passato e memoria, come sottolinea Elio Grazioli nel saggio La polvere nell’arte. Si tratta di un intervento realizzato nella sala da pranzo barocca di Palazzo Tozzoni di Imola. Dal tavolo riccamente apparecchiato, Oberti rimuove le stoviglie, creando un gioco di impronte che trasforma l’assenza in presenza; sui mobili e sulle credenze dispone invece la propria collezione di forchette raccolte nel corso degli anni.
Anche attraverso il video e la fotografia, Giovanni Oberti persegue l’obiettivo di carpire il tempo delle cose, la loro cronologia interna, la relazione con gli elementi vicini. Nelle quattro fotografie polaroid di Senza Titolo (Polaroid, Muri Chiostro S. Agostino, BG) (2007), “ferma” il vissuto del luogo prima che la ristrutturazione ne cancelli tracce e ricordi. La foto — scatto unico e irripetibile in quanto polaroid — diviene una fessura temporale, un archivio d’emozioni. Così come in Tra spettatore e superficie (Sposalizio della Vergine) (2008) registra per qualche minuto, con inquadratura fissa, una delle più note rappresentazioni prospettiche rinascimentali, mettendo a fuoco la distanza tra lo spettatore e il quadro. Ne risulta un video dalle immagini sfuocate, che racconta non tanto il celebre dipinto di Raffaello, quanto piuttosto lo spazio in cui l’opera si trova, in continuo dialogo con gli elementi visivi e sonori circostanti. Come nel caso di Palazzo Tozzoni il vuoto e l’assenza si trasformano in presenza.
A volte il meccanismo è più semplice e per immergere spettatore e opera in un continuo divenire, all’artista basta imbiancare la vetrina dello spazio espositivo (Senza titolo. Pittura, bianco pieno, 2009), come si è soliti vedere nei locali sfitti: la pittura stratificata ricopre a pennellate grossolane il lato esterno del vetro, quello esposto all’azione della pioggia e di eventuali passanti, forse curiosi di scrutare oltre la superficie. All’interno l’atmosfera è straniante e sospesa in una dimensione di pura contemplazione, dove ogni elemento emana la propria aurea.