La fata Turchina in tuta da lavoro mentre si dedica a esperimenti alchemici. È questa l’immagine che viene in mente nel descrivere l’autrice di “Pittura Muta” all’opera. Un’immagine che si materializza a partire dall’osservazione dei lavori in mostra che, per quanto apparentemente e formalmente freddi, raccontano delle tante vite che attraversano quella di Giulia Piscitelli.
La nuova personale dell’artista alla Galleria Fonti è il frutto di una formula che rafforza e sembra descrivere la progressione di quel “Sim Sala Bim” (titolo della sua personale del 2013 presso la stessa galleria napoletana) usato inizialmente per raccontare la trasformazione dell’oggetto in altro da sé. Le quarantadue tele argentee e specchianti (tutte 2019), quasi abbaglianti nello spazio candido e asettico della galleria, raccontano la mutazione silenziosa che avviene grazie alla cura e la minuzia che gli viene dedicata, riuscendo a descrivere più esistenze stratificate e, al contempo, porre l’accento sull’idea di valore, sia affettivo che mercantile. Alla base della formalizzazione delle “pitture mute”, una serie di quadri originariamente realizzati tra il 1930 e il 1970 da artisti sconosciuti. I paesaggi, le nature morte e le scene di vita, selezionate e acquistate al mercato delle pulci, seguendo una specifica fascia di prezzo, sono veicoli di affettività e di narrazioni familiari e sociali. Dopo l’acquisto, l’artista decide di prendersi cura dei frammenti di umanità racchiusi da quelle superfici – quella del pittore della domenica che le ha realizzate, quella del nonno che le ha conservate, quella del nipote che se ne è sbarazzato – e di farlo con l’attenzione e la dedizione di chi restituisce tempo a qualcosa che sembra vivere al di fuori di esso, eliminando l’odore delle case dei vecchi ma conservandone l’eredità nel riflesso. Restaura e rattoppa le tele, aspetta che tutte le parole assorbite da ciascun dipinto, nonostante la bruttezza formale di una pittura malfatta, vengano fuori. Dopo il lungo processo di copertura, con tanti strati di foglia d’argento quanto la superficie più o meno materica richiede, le “pitture mute” riescono a rappresentare loro stesse grazie a una variazione che non ha bisogno di cromia o di soggetto, quanto del rinnovato sguardo che osserva il contorno o si perde nell’increspatura. Questa emersione non è immediata e ciascuna immagine si rivela solo se l’osservatore è disposto a perdersi e ritrovarsi, specchiandosi in ciò che vede.
Sempre diversa ma sempre riconoscibile, la pratica di Giulia Piscitelli propone un trattamento inclusivo dell’esistente, privato da giudizi di valore e gerarchie, se non nella volontà di mettere in luce quanto la diseguaglianza possa essere appiattita. Non c’è pretenziosità neanche quando la foglia d’argento ricopre le superfici, perché la preziosità del materiale non afferisce al valore economico quanto all’incorruttibilità di un metallo poco soggetto al decadimento fisico prodotto dal tempo. Le superfici argentee e specchianti vibrano nonostante l’allestimento lineare che culmina in una quadreria: partitura di un racconto che è muto visivamente ma che concettualmente urla, che riequilibra la distanza fra il valore economico delle opere originarie e quello che gli viene attribuito nel momento in cui diventano materia rara collocata in un museo simulato. Il melodico incanto visivo di Piscitelli trasforma il ready-made nella forma più calda e eloquente di racconto: la fata turchina non propone soluzioni definitive a Pinocchio, ma gli insegna a osservare, a percepire, a discernere per comprendere il mondo invisibile davanti ai suoi occhi.