Angela Vettese: Come ti senti nei confronti di questi nuovi artisti freddi: vicino, lontano, padre, fratello, censore?
Giulio Paolini: Non mi sento parente neanche con me stesso ormai, però devo dire che una certa curiosità per queste ultime cose è subentrata a un’ostilità neanche troppo sotterranea verso quello che immediatamente le ha precedute. Quello che mi interessa è la consapevole caduta di quest’arte nella banalità, quindi un implicito atto di rinuncia al recupero dell’espressione e dell’individualismo. Librandosi in una sfera di strana indeterminazione, l’artista non mira ora a una autentica definizione di sé, ma a rimanere sospeso in un vuoto di valori. Questo mi attira, forse perché nel mio lavoro c’è una sorta di stacco permanente dal dichiararmene autore.
AV: Tu non ti sei mai sentito eclettico, non ti sei mai riconosciuto nell’attraversamento degli stili di stampo transavanguardista?
GP: Certamente sono infedele alle fonti cui mi attengo, spazio tra suggestioni di tipo diverso, senza naturalmente rinunciare ad accudire queste suggestioni in modo che diventino tutte un modo mio. Non mi sono mai chiesto se sono eclettico o meno. Piuttosto mi sono sentito chiedere: “Ma sei moderno o postmoderno?”. Rispondo che non mi identifico in nessuna delle due categorie per intero, ma in ciascuna un pochino. Perché, seppure io mi senta di corporatura moderna, avverto che questo moderno scricchiola e quindi, sempre usando un mezzo di comunicazione che appartiene al moderno, lo faccio reclinare su se stesso. Lo interrogo.
AV: L’introduzione del colore è piuttosto recente; potremmo prenderla come testimonianza di questo passaggio dal moderno al postmoderno. Pare tu stia abbandonando i presupposti analitici per reclinare in una sfera emotiva.
GP: Parli di un cedimento dell’età matura? Può darsi. Comunque già usavo il colore, in termini di successione seriale e di elencazione di valori cromatici, in un’opera del 1962. L’intenzione, in quel caso, era dire: così come un foglio bianco tagliato in maniera che lasci intravedere il supporto su cui è posato è un quadro, allo stesso modo un quadro sarà anche una successione regolare di colori posta per di più nel vuoto di un fondo trasparente. Oggi non parto più da assunzioni tanto lapidarie, ma per me si tratta sempre di rappresentare il dolore come costituente dell’opera nel suo concetto. Anche ammesso che oggi mi lasci maggiormente andare ai suggerimenti dell’interiorità, non riesco affatto a lanciarmi nel colore come esperienza totale dell’opera: per me questo è un momento sempre riflessivo e ipotetico, mai espressivo.
AV: La tua attitudine analitica nei confronti del linguaggio dell’arte non ti ha mai fatto scattare la voglia di smettere di produrre?
GP: Ammesso di ritenermi un concettuale (me l’hanno detto e ripetuto tanto che ho perso ogni forza di reazione), mi sono sempre ritrovato a esserlo in modo molto improprio. La mia è una specie di concettualità sotterranea all’immagine data, perché all’immagine non ho mai rinunciato. Cioè a un supporto, un materiale, un elemento posto lì per essere guardato. Non mi sono mai limitato a dichiarazioni astratte. Questo ricorso all’immagine, anche se ridotta alla sua struttura e proposta in termini inconsueti, mi ha salvato da certe impasse e dai radicalismi plateali che certo concettualismo, di marca soprattutto anglosassone, ha incontrato sul suo cammino.
AV: Possiamo dire che la tua è stata una continuità sotto il segno dello specchio, del riflesso che l’arte ha di se stessa?
GP: Senza dubbio. Al di là della comparsa, in un’opera, di un costume abbandonato come traccia di un presunto personaggio che ha abbandonato la scena, oppure di frammenti di una statua classica, cose difficilmente assimilabili tra loro, al di là delle differenze di scelta tra un codice formale e un altro, tutto si conduce a quell’unica necessità.
AV: Ti senti ancora legato all’Arte Povera?
GP: Sì, da tristi episodi. Mi rattrista questa sorta di celebrazione postuma del movimento (che poi movimento non fu) e il fatto che si sia diventati una famiglia con nipoti e cugini acquisiti. Il rischio è che ci si arruoli tutti in una truppa un po’ stucchevole.
AV: Cioè quello di appiattire le tematiche poetiche dei vari autori?
GP: Il problema è sempre quello di dare delle titolazioni e delle uniformità alle cose che possano andare incontro all’esigenza dello storico, che è quella di trovare sempre concatenazioni dialettiche per mettere in fila gli avvenimenti. Tutto questo, che io ho chiamato “la maledizione dello storico”, non può che affaticare la visione.
AV: Senti di mettere in piedi una scena nuova e sintetica o di intervenire invece in una scena già data, quella dell’arte stessa, in termini puramente analitici?
GP: Non è ammissibile che un artista si illuda di uscire dal cerchio dell’arte e di incidere sulla realtà che lo circonda. Credo però sia altrettanto inammissibile decretare che l’artista lavori soltanto per sé. Quando l’artista lavora, la sua attenzione è focalizzata al cento per cento sull’opera e sul linguaggio che usa. Però l’opera in sé qualche effetto, all’esterno, lo produce.
AV: Sono passati gli anni dell’impegno, ma l’opera non è comunque una monade senza porte e finestre.
GP: È una funzione inconsapevole non premeditata, mai posta come fine, ma possibile.
AV: L’imitazione, che tanto amava Aristotele, ha ancora senso per te?
GP: Qui il discorso è uguale e contrario al precedente, speculare direi. C’è sempre un filtro, una mediazione che fa sì che il tuo lavoro non nasca quando stai affacciato alla finestra, ma quando, chiusala, ricordi quello che sta fuori.
AV: In questo ambito va riportata anche la tua attenzione alla citazione dell’arte del passato?
GP: Una statua in gesso simula un originale che non vediamo, una fotografia ci riferisce qualcosa a cui non assistiamo direttamente in quel momento, un disegno prospettico allontana il piano della visione di quel poco che ci consente di non vedere la tela su cui è fatto. Il mappamondo che a volte ho usato mi è congeniale come tutte le cose che ripetono e citano essendo dei falsi. Dei simulacri paradossali, schietti, trasparenti di un’altra cosa. Mi affascina ogni congegno di falsificazione, di finzione del racconto attraverso materiali.
AV: Per te l’artista è un improvvisatore?
GP: Assolutamente. Perché si affida a quel che resta di ciò che ha pensato e si avvale di imperscrutabili sottofondi di memorie.
AV: Allora non ha professionalità?
GP: L’artista ha sempre l’antiprofessionalità, quell’apertura verso l’incidente di percorso e la sorpresa. È consapevole di svolgere un’attività pensante. Ma questa attività si traduce nella dimenticanza di ogni consapevolezza.
AV: Riconosci un flusso progressivo nella Storia dell’Arte?
GP: Certamente la storia dell’arte non dimentica se stessa e non può tradirsi. Certo attraversa una fase di stravaganza, di voglia di vacanza.