Davide Bertocchi: Da circa quattro anni vivi anche tu a Parigi. Hai lasciato Milano e il tuo grande studio a Torino per venire qui e rimettere tutto in discussione. Che cosa ha significato per te questo cambiamento?
Giuseppe Gabellone: Mi sono spostato a Parigi grazie a una borsa di studio all’inizio del 2006 e poi ho deciso di fermarmi. La città mi è sembrata in una buona posizione: appartata ma non troppo, fuori moda, forse, o almeno io la percepisco così. Venire a Parigi è stato utile al mio lavoro, ha coinciso con il bisogno di un cambiamento.
DB: Nei tuoi lavori recenti si delinea un chiaro tentativo di compenetrazione tra la scultura e la città, come se volessi creare un dialogo con essa. Mi viene in mente Boccioni quando parlava di statua “aperta”, di prolungamento nello spazio degli oggetti, di resa plastica delle influenze di un ambiente, di legami atmosferici, e diceva: “Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente”. Le tue sculture arrugginite hanno come sfondo luoghi precisi della periferia parigina: binari, treni, edifici anonimi. Mi ricordo che appena arrivato hai passato molto tempo a esplorare la città…
GG: Parigi è una città difficile da usare, densa di immagini precostituite e di cliché. In questo senso, ho realizzato le foto di cui parli (Senza Titolo, 2007) concentrandomi su un paesaggio più indistinto, fuori mano, lontano anche dalla retorica della banlieue. È difficile guardare un paesaggio senza pregiudizi, è la cosa più faticosa con cui mi confronto quando cerco un luogo dove fotografare. In questa serie la città resta sullo sfondo come una presenza che si relaziona in modo energico ma calmo con la figura in primo piano.
DB: Le sculture che appaiono nelle foto si distinguono per tre elementi: le figure, i piedistalli e le griglie. Da dove sei partito?
GG: Ho immaginato queste sculture come piccoli monumenti, quindi basamento e figura sono stati pensati assieme. In particolare, per quanto riguarda i piedistalli, all’inizio volevo lavorare su forme che ricordassero delle stufe, e forse in parte questa idea è rimasta: c’è qualcosa che si scioglie o cambia sostanza. La griglia è nata, invece, dall’esigenza tecnica di elevare le sculture dal suolo e superare il limite visivo del parapetto, mettendo così le figure e l’orizzonte della città in un rapporto più distaccato e armonico.
DB: Infatti le tue sculture sembrano dominare sul paesaggio come avamposti o vedette. Penso soprattutto al notevole sforzo che può aver comportato il loro trasporto ai piani alti degli edifici e all’azione di gruppo che ha preceduto gli scatti. In un certo senso possiamo definirli “monumenti portatili”?
GG: In realtà mi interessava ottenere l’effetto contrario, come se le sculture fossero in quei luoghi da sempre, un po’ come i rifiuti sulla spiaggia che si deteriorano ma faticano a scomparire. Quando prima mi riferivo ai monumenti, intendevo soprattutto quell’atmosfera propria di certi monumenti moderni: hai presente quel senso di desolazione che li circonda o li caratterizza? L’Italia ne è piena, perfino in posti improbabili come scogliere o svincoli autostradali. Il materiale e le forme delle mie sculture vogliono ricalcare anche questo senso di trascuratezza.
DB: Quindi la ruggine assume un doppio valore mimetico — temporale e, in un certo senso, emotivo —, che invece non è presente nelle opere che hai realizzato parallelamente, come per esempio L’Assetato (2008), la cui superficie metallica perfettamente pulita sembra quella di un monolite inattaccabile dal tempo.
GG: All’origine vi è lo stesso gruppo di disegni, ma in seguito le opere hanno preso direzioni diverse. Per L’Assetato è come se avessi lavorato alla costruzione di un personaggio: qualcuno che avanza con l’incedere dell’avido, o ai limiti della sopravvivenza, mosso comunque da una causa fondamentale.
DB: Puoi dirmi qualcosa di più sui disegni che sono all’origine delle sculture?
GG: Per questi lavori ho realizzato una serie di schizzi partendo da figure trovate su vecchie foto e ritagli di giornale.
DB: Quindi all’origine ci sono sempre le immagini. Come avviene la selezione?
GG: Raccolgo immagini di vario tipo, da ogni fonte, anche se colleziono per lo più vecchie fotografie amatoriali. Se da un lato questo tipo di fotografia è “codificata” da generi e soggetti ricorrenti — viaggi, celebrazioni, ritratti — dall’altro, può regalare immagini sorprendenti: associazioni involontarie, strani oggetti, bellezze o bruttezze particolari. Nel tempo ho accumulato un bel po’ di immagini e ogni tanto vado a cercare spunti in questo mucchio, oppure in qualche caso le uso direttamente, come negli ultimi lavori esposti allo Studio Guenzani a Milano (Senza Titolo, 2009): otto fotografie che mostrano teli su cui sono serigrafate immagini di bambini che giocano, metalli che fondono, rocce vagamente mostruose…
DB: Quando ho visto per la prima volta queste immagini, ho pensato che fossero frammenti di un film. Mi ha colpito il fatto che tu sia riuscito a innescare un ulteriore gioco di specchi in quella che sembrava essere, nei tuoi lavori precedenti, una simbiosi inespugnabile tra la scultura e lo scatto fotografico. Non credi che ci sia un aspetto cinematografico in questi lavori?
GG: Non ho pensato a questo aspetto, anche se ci sono vari elementi che potrebbero farlo credere. Il progetto è nato da un’immagine in particolare: la prima della serie, con i due ragazzini che giocano/lottano. Poi, è come se una scena avesse generato quella successiva, e questo, in effetti, può dare l’idea di una narrazione, anche se una storia non c’è. L’atmosfera di questo lavoro, tra il nostalgico e il macabro, è nata anche dall’accostamento tra un’immagine e l’altra: le rocce generano mostri, che sono generati a loro volta dal gioco che si riversa nella colata incandescente, che forse ha dato origine a tutte queste cose. Questo gioco di sequenze sarebbe potuto andare avanti all’infinito.
DB: Come una specie di scarabeo visivo, un’immagine ne crea un’altra. Mi viene in mente anche la “cura Ludovico” di Arancia meccanica, forse perché queste sculture in un certo senso ci obbligano a guardare le immagini. Stanley Kubrick era noto per la cura maniacale dei dettagli. Mi sembra che il tuo modo di lavorare sia molto simile. Anche tu operi sempre una precisa coreografia delle varie componenti nelle tue opere e mai nulla sembra essere lasciato al caso.
GG: Il confronto con Kubrick mi sembra esagerato, anche se è vero che tendo a controllare tutto. Lo sforzo necessario alla realizzazione di un’opera fa parte del lavoro stesso, diventa in qualche modo il suo apparato anatomico.
DB: Tempo fa, durante una visita nel tuo studio, ho visto che stavi assemblando delle forme poligonali di cartone per le sculture di specchi. In questo caso è tramite modelli come questi che generi le forme? È sempre importante per te immaginare in anticipo come sarà il risultato finale?
GG: Sì, per visualizzare un certo risultato realizzo molti disegni e modelli. Mi capita di utilizzare soprattutto il disegno quando lavoro sulle fotografie — forse perché questo mi aiuta a tenere sempre in mente l’inquadratura —, ma anche per queste realizzo dei modelli sommari per capire quanto spazio occuperanno i vari elementi nell’immagine. Per le sculture, invece, lavoro su modelli fin dal principio, facendone di sempre più elaborati fino ad arrivare a un prototipo.
DB: Nella scultura Figure d’alluminio (2009) sembra davvero che la forma sia stata concepita piegando dei fogli di carta, poi assemblati tra loro mantenendo un senso di leggerezza, nonostante la specificità del metallo. Se non sbaglio, è la prima volta che una tua scultura è composta da due figure, quasi come fosse la scena di un incontro. Oppure si tratta di uno scontro?
GG: Mi piace che ci sia questa ambiguità. Mettere una figura di fronte a un’altra è un gesto talmente essenziale che quasi non saprei commentarlo. Tra le due presenze si crea subito uno spazio importante, come se nel vuoto tra loro si giocasse la tensione del lavoro. Sono partito piegando dei fogli di carta e dando origine a delle figure cave. Il risultato finale sono due esseri in una posa congelata, quasi delle armature. Il loro fronteggiarsi è silenzioso e insieme loquace e il rivolgersi esclusivamente l’uno all’altro li chiude in una formazione inattaccabile anche agli sguardi di chi gira loro intorno.
DB: Negli ultimi anni la figura umana ha conquistato nelle tue opere sempre più spazio. Come pensi evolverà questo incedere di figure nei prossimi progetti?
GG: Molto lentamente, visto che questo soggetto mi porta a essere prudente. Ora mi interessano le figure che compiono azioni emotive di base: piangere, ridere, arrabbiarsi. Ogni tanto ho la sensazione di educare la mia sensibilità verso gli esseri umani attraverso il mio lavoro. Poi mi viene il dubbio: anche con la figura umana è solo rimanendo in superficie, nella sua pelle, nella storia della sua rappresentazione, che riesco a stabilire un vero contatto con essa e farne qualcosa.