Alessandra Troncone: Cominciamo dal principio. Come è nata la sua passione collezionistica?
Giuseppe Panza di Biumo: La mia passione è nata 54 anni fa, anzi si può dire che l’arte che ho comprato quaranta, cinquanta anni fa non è più contemporanea ma storica. Ho sempre avuto una grande passione per l’arte, quando ero giovane studiavo arte antica ma allo stesso tempo cercavo di formarmi sull’arte contemporanea. Allora i nomi famosi erano Picasso, Braque, Matisse…
AT: Qual è stata la prima opera che ha acquistato?
GP: Ho comprato un quadro astratto di Atanasio Soldati, che però ho rivenduto per comprare un Franz Kline.
AT: E ora di quanti pezzi consta la sua collezione?
GP: Erano 2500, dopo le donazioni ai musei sono diventati circa 1500.
AT: Già negli anni Sessanta lei ha cominciato a collezionare arte minimal e concettuale, oggi un nucleo fondamentale della sua collezione. Quando è venuto in contatto con questo tipo di ricerche?
GP: Già nel 1968. Ho conosciuto gli artisti concettuali girando, viaggiando, seguendo il lavoro delle gallerie di punta, quelle che si interessavano all’arte nuova.
AT: Perché collezionare un’arte “dematerializzata”, all’epoca anche difficilmente rivendibile?
GP: È un’arte che ha un contenuto filosofico e, siccome mi interessa da sempre la filosofia, ho colto subito l’interesse di quest’arte perché offriva una visione concettuale della realtà, giocava sul rapporto arte-realtà ma come rapporto indiretto, non diretto. La parola diveniva un mezzo per fare dell’arte figurativa e non solo per comporre delle poesie.
AT: Qual è stato il primo lavoro concettuale che ha acquistato?
GP: Credo alcune opere di Robert Barry, Lawrence Weiner e Bruce Nauman. Di Nauman ho acquistato le opere del ’67-’68, poi dopo anche quelle più concettuali. Ho comperato un po’ tutto il gruppo dei concettuali all’inizio.
AT: Quando ancora era un tipo d’arte che non vendeva molto.
GP: Certo, io ero uno dei pochi che comprava le opere concettuali, costavano poco. Nessuno le voleva, ma a me interessavano e quindi ne ho comprate alcune centinaia. I musei allora prendevano poco in considerazione questi artisti, ma ora mi chiedono le loro opere costantemente. Per esempio, quando compravo i lavori di Mark Rothko, c’era chi mi diceva: “Puoi fartele fare anche da un imbianchino”. Adesso il loro valore è altissimo.
AT: La sua collezione è focalizzata in particolar modo sugli americani; come conosceva questi artisti? Viaggiava molto in America? Quali gallerie frequentava?
GP: Frequentavo principalmente la galleria di Leo Castelli. Andavo in America due volte l’anno e ogni volta mi fermavo un mese.
AT: Non crede che vendere — e quindi comprare — le opere concettuali andasse un po’ contro il senso stesso di questa tendenza artistica?
GP: Tutta l’arte si vende e si compra, è comunque un’arte che ha una sua concretezza che un estraneo non vede ma chi invece ci è dentro capisce benissimo. Per esempio, ho comprato molte opere di Weiner e chiedevo al mio avvocato di darmi uno strumento legale per poter attestare con una firma dell’artista la proprietà e il fatto che fosse un’opera d’arte. Lui diventava matto, diceva: “Come si può vincolare la vendita di una parola che è scritta sul vocabolario?”. Risposi che la volontà e l’espressione di comprare una parola è una cosa che si può descrivere, quindi si può identificare così. Così l’artista mi ha fatto una semplice dichiarazione.
AT: Immagino che in molti casi si sia trovato in situazioni simili…
GP: Sì, ma non me le ero posto come obiettivo. Tutti i miei acquisti sono stati fatti sulla spinta dell’istinto e in un secondo tempo del ragionamento. Questa immaterialità dell’opera d’arte concettuale non mi disturbava, anzi, lo consideravo un valore aggiunto. La formula poi che aveva trovato il mio avvocato escludeva il pericolo di copie e contraffazioni.
AT: Chi seguiva invece degli artisti italiani?
GP: Purtroppo degli italiani non seguivo quasi nessuno perché io mi sono sempre interessato di arte americana e quindi non avevo tempo e mezzi finanziari per comprare anche l’arte italiana. D’altra parte in questo settore dell’arte concettuale gli americani hanno cominciato per primi, gli italiani sono venuti dopo.
AT: In realtà, guardando le date, c’è qualcosa che avveniva anche contemporaneamente… penso a Giulio Paolini, Alighiero Boetti.
GP: Paolini era indipendente, quindi non subiva l’influsso dell’arte americana. Boetti è un artista importante, lo stimo molto, ma non ho comprato loro opere perché non potevo fare tutto.
AT: Forse le opere degli italiani erano più costose di quelle degli americani?
GP: Non so se fossero costose, quelle degli americani le pagavo mille dollari l’una che però, nel ’68, erano l’equivalente di 5000 dollari oggi.
AT: Invece chi frequentava dei galleristi italiani?
GP: Avevo rapporti principalmente con quei galleristi che trattavano l’arte americana: a Roma per esempio c’erano diverse gallerie di ottimo livello, come L’Attico di Fabio Sargentini, o La Tartaruga di Plinio De Martiis. È stato un momento glorioso per Roma, perché molti artisti che sono diventati famosi in seguito hanno avuto qui la loro prima mostra europea. Poi c’era Sperone a Torino, che aveva fatto anche mostre di arte concettuale ma si interessava soprattutto di arte minimal. Un altro artista che ho comprato in larga misura in quegli anni è stato Joseph Kosuth.
AT: Continua questo rapporto con Kosuth?
GP: Sì, ma adesso non lo compro più perché i mille dollari sono arrivati a quattrocentomila.
AT: Perché questa preferenza così spiccata per gli americani? Quali differenze riscontrava con l’arte italiana?
GP: Una radicalità diversa. Gli americani erano più radicali, avevano una visione filosofica più forte.
AT: Una collezione comporta anche dei problemi di allestimento, soprattutto per le grandi installazioni e per le opere concettuali. Come si è relazionato con questo?
GP: Ho sempre cercato, attraverso l’allestimento, di valorizzare il significato di ogni singola opera che entrava in collezione. Ho concepito un mio sistema di esporre l’arte, ossia un artista per ogni stanza per non caricare troppo le pareti e renderlo così visibile.
AT: In questi casi invitava l’artista ad allestire la propria stanza?
GP: No, la allestivo io, perché invitare gli artisti è sempre una cosa difficile; hanno spesso delle idee diverse dalle mie su come si espongono le opere.
AT: Ha mai affidato la sua collezione a un curatore?
GP: Mai. Ho sempre deciso gli acquisti e fatto le installazioni a mio giudizio esclusivo, con l’aiuto di mia moglie.
AT: Negli anni Settanta prestava già delle opere della sua collezione per le mostre?
GP: All’inizio no, ho cominciato dopo qualche anno.
AT: E i curatori venivano a vedere la sua collezione?
GP: Sì, ricordo visite di molte persone, conoscevo molti curatori e direttori di musei allora. C’era un clima intellettuale e culturale molto diverso da quello di oggi. C’era tanta gente che si interessava alle tendenze nuove, a quella che era una nuova indicazione su una visione diversa dell’arte e della realtà. Questo desiderio di conoscere era una spinta forte, mentre adesso purtroppo queste spinte sono ridotte al minimo.
AT: Nelle numerose mostre in giro per il mondo che coinvolgono la sua collezione, lei interviene nelle scelte di allestimento?
GP: Dipende, se presto due o tre opere certamente no, ma dato che spesso mi richiedono di fare una mostra, allora la realizzo io.
AT: Ritiene che il suo approccio all’arte e al mercato dell’arte sia cambiato in questi anni?
GP: Il mio approccio no, sono gli altri che sono cambiati. Io negli anni Sessanta e Settanta ho comprato dall’Arte Informale di Antoni Tàpies e Jean Fautrier, all’Espressionismo astratto di Kline e Rothko, alla Pop Art dal 1962 con opere di Roy Lichtenstein, James Rosenquist, Claes Oldenburg. Ho sempre seguito movimenti artistici molto diversi tra loro.
AT: E cosa li accomunava?
GP: Li accomunava la percezione di cosa è e cosa non è il bello. Anche gli artisti pop, che sembrano così diversi dagli altri, hanno in comune con tutti gli altri questo desiderio di creare un’opera che parli con l’interiorità della persona e non con la visione fisica dell’immagine.
AT: Adesso continua a seguire quello che succede?
GP: Sì, certo.
AT: Si rivolge sempre alla scena americana?
GP: No, adesso anche a quella italiana. In realtà già nel ’73 avevo comprato molti Maurizio Mochetti. Lui purtroppo è un artista difficile e quindi non sono mai riuscito a fare delle mostre. Attualmente mi occupo molto dell’arte del colore che è nata in America una quindicina di anni fa ma anche in Italia ci sono artisti molto bravi in questo settore.
AT: Insomma solo l’Arte Povera è rimasta fuori dalla sua collezione…
GP: Sì, io conoscevo bene gli artisti dell’Arte Povera, li consideravo dei buoni artisti e li stimavo molto, ma non si possono fare bene due cose contemporaneamente. In quel momento mi interessava l’arte minimal americana e quindi le mie risorse economiche — che non erano inesauribili — le dedicavo a quella.
AT: Parliamo del momento della scelta… innanzitutto sceglie prima l’opera o l’artista?
GP: Sempre prima l’opera, ma poi da questa viene fuori l’artista.
AT: E cosa la guida in queste scelte?
GP: Quello che mi guida è nella domanda: “Cosa vuol dire?”, domanda che mi fanno milioni di persone quando vengono a vedere le cose un po’ pazzesche che compro. Io cerco di spiegare loro il perché. Anche per l’arte concettuale avevo risposte diverse a seconda degli artisti che mi interessavano. Ogni opera ha un suo perché.
AT: Cosa ne sarà della sua collezione?
GP: Ho già ceduto a otto diversi musei in donazione o in acquisto 1100 opere d’arte della mia collezione. Alcune sono installate in modo permanente al Palazzo Ducale di Sassuolo, o nella mia villa di Varese che ho donato al FAI. Io sono diventato vecchio e la possibilità di trovare musei interessati richiede molto tempo, quindi non so cosa potrò fare ancora. Inoltre non posso più donare perché per la legge italiana si può donare a terzi — che quindi non siano i legittimi discendenti — non più del 25% del proprio patrimonio, quota che io ho già raggiunto. Stiamo cercando ora una soluzione perché siano i miei figli a donare le opere della collezione ai musei. Loro mi seguono, soprattutto mia figlia Giuseppina e mio figlio Alessandro; spero e credo che proseguiranno la mia politica di donazione.