Camilla Pignatti Morano: Come e quando si è manifestato il tuo interesse per l’arte?
Giuseppe Pietroniro: Penso sia stata la naturale conseguenza dei miei studi e del contesto culturale in cui ho vissuto, che ha nutrito in me l’interesse per l’arte e la mia esigenza di mostrarmi.
CPM: Ci sono state delle figure chiave che hanno influenzato la tua visione della vita e dell’arte?
GP: C’è stato un periodo in cui avevo la convinzione che per poter essere un artista bravo e interessante occorresse elaborare dei concetti intellettualmente forti e convincenti. Cercare però di dare una motivazione filosofica all’opera prima di farla mi bloccava, mi inibiva. A un certo punto ho dovuto fare un grande lavoro di pulizia mentale che ha coinciso con la mia collaborazione con Joseph Kosuth. Questo incontro ha condizionato il mio atteggiamento nei confronti sia della vita che dell’arte. La sua idea di modus operandi e di modus vivendi mi ha in qualche modo cambiato.
CPM: Parli di modo di operare. Che ruolo ha per te l’arte contemporanea nella società di oggi e che ruolo dovrebbe avere?
GP: Credo siano cambiati sia il concetto di contemporaneità che l’analisi in sostanza della realtà soggettiva e oggettiva. Sono cambiati i media e la comunicazione è sfrenata. Tutto entra in un’orbita obsoleta in poco tempo. La sperimentazione è associata alla spettacolarizzazione e di conseguenza viene assorbita dal meccanismo del consumismo. Tutto è avvenuto in un periodo brevissimo. Manca il tempo utile per metabolizzare la sperimentazione artistica. Non ci sono neanche più tensioni politiche e sociali che determinano momenti di rottura con il passato generando un rinnovamento. Credo quindi che il ruolo dell’arte sia quello di distruggere queste infrastrutture entro le quali l’uomo sta soffocando. L’arte ha il compito di creare e di interessarsi alla costruzione di nuove forme di linguaggio.
CPM: Questa tua analisi può fare paura, ma senza dubbio rispecchia la realtà contemporanea. Il tempo passa in fretta e in questa fretta non riusciamo ad approfondire la conoscenza. Baudelaire scriveva che solo un poeta può approfondire le corrispondenze all’interno della società. Tu come senti di arrivarci?
GP: Il momento della creatività inizia con il vivere come un pensatore, no? La prima produzione è quindi il pensare, la seconda il linguaggio. Bisogna esprimere le proprie idee sorte dal pensare, poi produrre e rendere la produzione tattile.
CPM: Partiamo dai tuoi progetti più recenti. Visitando la mostra “Perluciditas” (2007) alla Galleria Maze di Torino, si percepisce una condizione di precarietà. Si ha la sensazione di vivere per un attimo una realtà paradossale dove la trasparenza diventa presenza, la fragilità potenza, la funzionalità inutile, l’efficacia inservibile, la frustrazione reale. Cosa ti ha spinto verso questo progetto di annullamento delle funzioni?
GP: Hai riassunto in modo impeccabile il senso della mostra. Posso aggiungere che mi interessava l’idea di realizzare un lavoro fastidioso e di difficile accesso alla fruibilità, come se non volessi mostrare nulla in particolare. La mostra era priva di comunicato stampa e il percorso aveva una serie di ostacoli da oltrepassare.
CPM: Che senso dai all’instabilità?
GP: Se riferita al mio modus vivendi, il senso è quello di vivere costantemente al limite, rischiare continuamente. Se riferita al mio modus operandi, implica una serie di riflessioni oggettive su una parte dei miei lavori.
CPM: Quando penso ai limiti di cui parli mi viene in mente “IN-Stability” (2006). Come è nato questo progetto?
GP: È nato dopo aver letto Il sistema degli oggetti di Jean Baudrillard. Ho trovato molto interessante il modo in cui Baudrillard spiegava la relazione progressiva che si instaura tra l’individuo e gli oggetti messi in relazione in uno spazio domestico. In questa condizione tutti gli oggetti che ci circondano si costituiscono in un coerente sistema di segni che circoscrive e regola la condotta e le ideologie di una società, sia dal punto di vista culturale che sociale. Con “IN-Stability” è come se avessi fatto un ritratto al contesto sociale in cui vivo.
CPM: Quale importanza ha la specializzazione dei media per te? Cerchi di approfondire le differenze o di legare tra loro le corrispondenze? Penso ad esempio alle porte, agli specchi e alle pareti a dondolo, e al loro rapporto con lo spazio.
GP: L’importanza e la scelta dei media spesso è relativa a ciò che voglio raccontare e alla direzione che voglio prendere. Trovo che sia molto stimolante la ricerca dei materiali, soprattutto quando sono eterogenei, così da creare un dialogo tra loro. Questo mi dà la possibilità di trovare continue varianti allo sviluppo del progetto stesso. Se posso indirizzo la ricerca sempre su materiali nobili perché attraverso la loro natura è più semplice approfondire il rapporto di comunicazione tra oggetto, progetto e spazio. Non prediligo i materiali realizzati con processi chimici semplicemente perché cerco di essere attento alla condizione ecologica e ambientale.
CPM: Nel tuo progetto “Interni” (2006-in corso) i musei, le fondazioni private, le case dei collezionisti sono spazi svuotati. Lo spazio svuotato sembra uno spazio privo di significato e funzione, ma in realtà dice tutto. Lo spazio privato della propria funzione è un ritratto. Perché?
GP: In questo progetto fotografico non faccio nessun riferimento alla situazione istituzionale. Il mio interesse si sofferma sulla possibilità di collezionare gli spazi deputati all’arte contemporanea vuoti, semplicemente perché sono attratto dal concetto di sottrazione. Nella vita e nell’arte bisognerebbe togliere, non aggiungere.
CPM: Quale funzione hanno e dovrebbero avere le istituzioni in Italia?
GP: Oggi si dovrebbe essere più attenti non soltanto alla riqualificazione di ex fabbriche o alla realizzazione di nuovi spazi espositivi, ma anche alla gestione degli stessi. Credo che il problema sia dovuto all’incompetenza di persone a cui sono affidati incarichi importanti e con potere decisionale e, spesso, a rimetterci è la qualità delle programmazioni.
CPM: Cerchi sempre di creare nuove riflessioni sulla realtà in modo velatamente ironico. In che modo si manifesta l’ironia nei tuoi lavori?
GP: Quando cerco di sovvertire il punto di vista reale con l’inganno della percezione. Così come avviene quando si realizza un disegno in prospettiva dove i punti fondamentali sono tre: il punto di vista e i due punti di fuga. È sufficiente spostarli o raddoppiarli e il disegno risulta un inganno.
CPM: Quale è la tua insicurezza? E la tua sicurezza?
GP: Ti rispondo in veste d’artista. Sono sicuro, come tutti, che l’insicurezza derivi da una instabilità economica che non ti permette di lavorare né di vivere in modo sereno. Questa instabilità poi è data anche dalla sistematica lentezza dei supporti istituzionali che rallentano lo sviluppo e la visibilità e soprattutto sono disattenti a una possibile collaborazione con artisti di altri paesi. “IN-Stability” è proprio un riferimento oggettivo a questa situazione.
CPM: Credi nella collaborazione? In che modo e con chi?
GP: Ho sempre creduto che il confronto e le collaborazioni aiutino a crescere e ad aprirsi. Mi piacerebbe collaborare con architetti e urbanisti, interagire con loro e con i loro progetti. Non mi piacerebbe lavorare in posti circoscritti e chiusi. Mi troverei bene a lavorare in spazi aperti dove il lavoro non si deve relazionare solo con lo spazio circoscritto, ma prevalentemente con l’ambiente.
CPM: Tra gli artisti a cui guardi oggi, con quali ti piacerebbe partecipare a una mostra?
GP: Probabilmente con diversi artisti che si sono affermati intorno alla metà degli anni Settanta e che hanno rappresentato per me un punto di riferimento, come Gordon Matta-Clark, Marcel Broodthaers e Michael Asher.
CPM: Ti immagino ora davanti a uno spazio pronto a svuotarlo completamente per farne il ritratto. Ma quando ci omaggerai di un tuo autoritratto?
GP: Sicuramente alla fine del progetto “Interni”, quando avrò svuotato più spazi possibili. Probabilmente sarà la condizione ideale.