Grazia Toderi: Orhan, tu ami l’arte, moderna e contemporanea. Dimmi cosa c’è dietro questo tuo interesse.
Orhan Pamuk: Come ho scritto nel mio libro autobiografico Istanbul [Einaudi, Torino, 2006], tra i sette e i ventidue anni volevo diventare un artista. Istanbul è un libro sulla mia città, quella tra gli anni Cinquanta e Settanta. E l’ho scritto per spiegare le ragioni per cui non sono diventato un artista. O, più precisamente, le ragioni per cui non sarei potuto diventare un artista. Quelle ragioni non mi sono chiarissime. Oppure non voglio renderle chiare a me stesso perché ho paura che potrebbero uccidere la poesia in me. Così ho finito per scrivere un intero libro.
Sono cresciuto per diventare un artista. Avevo l’abitudine di disegnare e scrivere nel tempo libero, o come talvolta accadeva in maniera incessante e maniacale. E questa mia inclinazione era accettata dai miei nonni e dai cugini in un’affollata famiglia di ingegneri civili. Infatti sono stato incoraggiato a diventare un pittore o un architetto, oppure anch’io un ingegnere civile. Ma all’età di diciott’anni qualche rotella nella mia testa è saltata. Dopo aver iniziato a studiare architettura presso l’Istanbul Technical University (l’università che aveva frequentato tutta la mia famiglia), ho abbandonato l’università e ho smesso di disegnare e di dipingere. Per i successivi vent’anni ho fatto pochissimi disegni e successivamente ho deciso di diventare un romanziere. È stata una castrazione autoimposta – per così dire. Mi sono sentito profondamente frustrato, ma ho direzionato i miei sentimenti e le mie energie verso la prosa.
Dopo tutti gli sforzi per diventare un romanziere ora mi considero quantomeno un “romanziere visivo”. Cosa intendo per romanziere visivo? Io credo che la narrativa, l’arte del romanzo sia basata su un certo tipo di comunicazione. È una sorta di trasmissione di immagini dalle menti del romanziere a quelle dei lettori… Ho scritto molto su questo tema nella mia raccolta di saggi Romanzieri ingenui e sentimentali [Einaudi, Torino, 2012]. Scriviamo romanzi per trasmettere ai lettori le immagini drammatiche che abbiamo nelle nostre menti. La narrativa è uno strumento per favorire questa trasmissione, per evocare immagini nell’immaginazione dei lettori. Il romanziere visivo opera in questo modo.
Non dimentichiamo che la pittura e la poesia erano tradizionalmente considerate arti sorelle. Usano metodi diversi per produrre lo stesso effetto poetico e sentimentale nella persona che guarda o legge. Alla Columbia University di New York, dove sono professore, tengo un corso sulla storia della mescolanza tra pittura e letteratura, dalla caverna di Platone alle storie di Borges. Quando dico di considerarmi un romanziere visivo voglio dire che cerco di rivolgermi ai lettori innanzitutto per immagini, come Tolstoj, come Proust, come Nabokov. Questi scrittori che ammiro sono singolari per il loro stile, che evoca immagini chiare e meravigliose nella mente dei lettori. Sono felice quando i miei lettori mi dicono che mentre leggono i miei romanzi possono facilmente visualizzare il soggetto.
Ma ora voglio porti io una domanda che rivolgo sempre agli artisti che ammiro. Le tue sono immagini meravigliose, ma quali sarebbero le parole che corrispondono a queste immagini?
GT: Immagini e parole sono materiali mentali. Lavorando al nostro progetto Words and Stars (2013-16) non ho mai pensato a una “corrispondenza” tra le tue parole e le mie immagini, ma piuttosto a un loro “accompagnamento” reciproco. Una relazione più simile al linguaggio della musica, che non si spaventa di unire parole e suoni, di sommare voci, di affiancare strumenti a fiato, a corde, a percussione, di fondere legno a metallo e a pelle, astrazione a figurazione. In musica non ci chiediamo se la parola corrisponde al suono. Ho pensato al nostro lavoro come a un concerto, una composizione creata con diverse materie: parole, immagini, luce, proiezioni, colori, città, spazio, suono, tempo, stelle… Hanno avuto un ruolo molto importante anche la storia e la storia dell’arte, la geografia e l’astronomia. In fondo il rapporto tra parola e immagine è stato solo uno dei tanti ingredienti del nostro lavoro insieme. Orhan, quando hai avuto per la prima volta l’idea di realizzare Words and Stars insieme? E perché?
OP: Dieci anni fa sono riapprodato alla pittura e alla “produzione artistica”. Il Museo dell’innocenza, a Istanbul, è stato il mio primo progetto in questa direzione. Lasciami illustrare brevemente quello che ho fatto con il Museo dell’innocenza: è sia un romanzo [Il Museo dell’innocenza, Einaudi, Torino, 2012] che un museo e racconta la stessa storia contemporaneamente. Gli oggetti, i paesaggi e le immagini descritte nel romanzo sono esposte nel museo. Ho programmato l’inaugurazione del museo il giorno della pubblicazione del romanzo, in modo che la narrazione potesse costituire una sorta di catalogo commentato del museo, nel quale le annotazioni sono manipolate in modo tale da creare una sequenza da leggere così come si farebbe con un romanzo vero e proprio. Ho pubblicato il romanzo nel 2008. Il museo ha richiesto più tempo e molto lavoro, e ha aperto le porte finalmente nel 2012.
Quindi devo sottolineare il fatto che sono tornato alle gioie dell’arte attraverso le pratiche dell’arte contemporanea o dell’arte concettuale – dipende da quale prospettiva si osserva il progetto del Museo dell’innocenza. Dopo un grande lavoro per la produzione delle teche, delle scatole e degli allestimenti, ho cominciato a sentirmi come un artista contemporaneo, non più come un pittore. Sì, ho iniziato istintivamente a entrare dentro le cancellerie, le botteghe per materiali artistici, comprando spazzole, matite, colori, carta come un vecchio pittore. Ma passeggiavo anche in quelle librerie di seconda mano di Istanbul che vendono cartoline, nei mercatini delle pulci, nei negozi di chincaglierie…
Questo era quello che mi passava per la testa quando ho incontrato il tuo lavoro nel 2009 alla Biennale di Venezia. Stavo cercando qualcosa per il Museo dell’innocenza. Era un momento davvero memorabile della mia vita. La poesia, l’intensità della tua installazione video Orbite Rosse (2009) mi ha colpito molto. È rimasta con me. Ero pieno di un senso dell’infinito, perfetto per la conversazione ingenua tra i miei personaggi che, innamorati, guardano le stelle nella notte di Istanbul. Devo sottolineare le mie prime impressioni: “come un bambino”, ma anche “metafisico”. A prima vista questi concetti possono non essere troppo evidenti nel tuo lavoro, ma sono al centro della nostra collaborazione. Credi che sbagli quando sottolineo il senso dell’infanzia nel tuo lavoro, o è qualcosa che non insegui?
GT: Credo, e spero, che il senso dell’infinito ridimensioni qualsiasi presunzione umana, ricordandoci che tutta la nostra evoluzione è ancora solo infanzia.
OP: Sia la letteratura che l’arte sono aperte agli incontri imprevisti che si palesano sulla nostra strada mentre cerchiamo di produrre qualcosa. Quanto della tua creatività artistica si basa sulla bellezza accidentale e quanto sull’immagine intenzionale?
GT: Il tuo invito, ad esempio, è stato qualcosa di “accidentale”, al di là della mia “immagine intenzionale”. Sono stata molto felice di riceverlo, ma dopo i nostri primi incontri ero preoccupata di diventare una delle teche del tuo museo, e che il nostro lavoro potesse essere ridotto a un mero dialogo tra i tuoi due personaggi. Ma ero anche molto felice di lavorare con uno sconosciuto, molto diverso da me e dalle mie esperienze. Ho accettato questo progetto come un rischio interessante. Non eravamo amici o colleghi, non ci eravamo mai incontrati prima. Ho capito per la prima volta che avremmo potuto lavorare insieme quando hai acconsentito a scrivere, per la nostra collaborazione, un testo che non avesse né inizio né fine, come i miei video, che hanno un tempo circolare e potenzialmente infinito.
Poi, mentre mi parlavi con profonda insistenza e veemenza del dialogo tra i tuoi due personaggi, improvvisamente ho capito che avrei potuto trasformare quel dialogo d’amore anche in altro. Dopo qualche giorno di riflessione ti ho proposto la struttura sulla quale avrei voluto lavorare: un dialogo, sì, ma che si potesse trasformare anche in una conversazione e in un monologo. E che, virtualmente, potesse crescere ancora, come ne Le mille e una notte. Hai accettato, e questa struttura ci ha permesso di avanzare in equilibrio tra la storia d’amore del tuo Museo dell’innocenza e le mie opere Rosso Babele (2006) e Orbite Rosse, creando qualcosa che ci potesse portare altrove.
L’amore per le città e per l’astronomia erano il nostro punto d’incontro, così ti ho proposto di lavorare sulla relazione tra città e cielo. È osservando le geometrie luminose nel cielo – le costellazioni – che l’uomo ha costruito le città, cercando una continua relazione tra cielo e terra. Ne Le città invisibili [Einaudi, Torino, 1972], Italo Calvino narra così della città di Andria:
Ogni sua via corre seguendo l’orbita d’un pianeta e gli edifici e i luoghi della vita in comune ripetono l’ordine delle costellazioni e la posizione degli astri più luminosi… Il calendario della città è regolato in modo che lavori e uffici e cerimonie si dispongono in una mappa che corrisponde al firmamento in quella data: così i giorni in terra e le notti in cielo si rispecchiano… Così perfetta è la corrispondenza tra le nostre città e il cielo che ogni cambiamento comporta qualche novità tra le stelle…Ogni cambiamento implica una catena d’altri cambiamenti… La città e il cielo non restano mai uguali…
Un potentissimo messaggio, poetico e politico al tempo stesso, che era il stato il punto iniziale delle mie vecchie opere, e di Orbite Rosse.
Per Words and Stars volevo ancora lavorare sul senso di infinito offerto dalla tua meravigliosa città. Notti di lavoro a Istanbul, ascoltando echi e suoni di diversa natura correre da parte a parte. Istanbul sembra non finire mai, riflettendosi nell’acqua e irradiandosi nel cielo, ma in un attimo può svanire nell’atmosfera. Non ho fermato il lavoro finché non sono arrivata a vedere i suoi confini svanire nel buio, verso il Mar Nero ad est, quello di Marmara ad ovest, l’Europa a nord, l’Asia a sud.
Dagli anni Ottanta sono ossessionata da mappe e atlanti, e dalle loro trasformazioni nel tempo. Catturo migliaia di immagini aeree notturne di città e raccolgo centinaia di immagini di costellazioni celesti. Di notte gli “sciami” di luci trasformano le città in astratte mappe luminose. Sono le nostre costellazioni terrestri. I loro toni sono rossastri, un rosso innaturale e indefinibile. Passo quasi tutto il mio tempo a stratificare le immagini che ho scattato, una sull’altra, come le città sono stratificazioni di tempo. Ogni singolo fotogramma si trasforma in un altro, appena appena diverso, e così via, moltiplicandosi in migliaia di altri fotogrammi che corrono luminosi su una superficie e nel tempo.
In Words and Stars le tue parole sono offerte da grafie differenti, segni sensibili e umani, come segni sensibili e umani sono quelli delle città viste dall’alto. Ogni grafia è uguale e diversa da tutte le altre. Ogni grafia è anche involontario ritratto segreto. Volando in aereo, i corsi dei fiumi che scintillano sotto di noi mi sembrano la grafia della terra. Non posso evitare di immaginare un rapporto tra corpo, paesaggio, grafia e architettura. La scrittura giapponese, ad esempio, mi sembra sempre un paesaggio di vegetazione e templi…
Orhan, a volte ho sentito il tuo interesse nella mia arte come utilitario, finalizzato a produrre qualcosa per il tuo museo; mentre a volte eri completamente coinvolto in esso senza nessun proposito, come leggendo una buona poesia.
OP: Forse me lo chiedi perché ti ho fin da subito approcciato con il desiderio di produrre qualcosa per il museo, non nascondendoti i grandi spazi e le possibilità per sviluppare un’opera d’arte basata sulle tue opere video precedenti…
I miei personaggi, due amanti nella Istanbul degli anni Settanta e Ottanta, Fusun e Kemal, influenzati dal loro amore negato, regrediscono verso a una sorta di metafisico pensiero infantile. Mi interessava anche il pensiero metafisico adolescenziale, l’associazione dei nostri pensieri con l’astronomia, le stelle, l’infinità dell’universo. Queste idee erano già illustrate, sperimentate, espresse in modo approssimativo nel Museo dell’innocenza. Ma i tuoi splendidi video, invece, sarebbero stati perfetti per il museo. Così mi sono rivolto a te prima da scrittore-artista, che ammira un altro artista, e successivamente come fondatore e presidente di un museo che invita un altro artista a collaborare con il suo artista – io in questo caso. Con quale delle mie personalità ti senti più a tuo agio? Il me artista o il me proprietario del museo? Per me lavorare con la Grazia-artista è stato gratificante ma non facile…
GT: Ho avuto quotidiane e immaginarie conversazioni con il meraviglioso scrittore de Il mio nome è rosso [Einaudi, Torino, 2001]: sul Mausoleo di Galla Placidia e le tante cupole stellate della storia dell’arte, sui vortici sconvolgenti delle notti stellate di Van Gogh, sul testo “Al Planetario” di Walter Benjamin…
Le nostre reali discussioni per realizzare Words and Stars spesso convergevano sulle stesse decisioni finali, ma arrivando da differenti e opposti punti di vista. Questo era il punto della nostra collaborazione: come realizzare qualcosa insieme partendo da differenti punti di vista? Come realizzare qualcosa insieme rispettando le nostre differenze?
Dopo quattro anni, è stato meraviglioso vedere la nostra trilogia pronta e installata al MART di Rovereto (a cura di Gianfranco Maraniello): un “Monologo” (una proiezione singola in bianco e nero), un “Dialogo” (una doppia proiezione nelle tonalità del blu-turchese) e una “Conversazione” (cinque proiezioni dai toni magmatici, che formano un pentagono). Abbiamo anche realizzato una versione speciale di Words and Stars per la cupola di un planetario contemporaneo, a Torino, e un’altra presentata a Palazzo Madama (a cura di Guido Curto e Clelia Arnaldi di Balme), sempre a Torino: otto immagini per un orrery, un piccolo sistema solare che sembra la miniatura del Globe Theater, realizzato dall’ebanista Pietro Piffetti nel Settecento.
Abbiamo intersecato tempi e spazi, e adesso sono finalmente pronta ad accettare di entrare in una teca. Words and Stars continuerà a viaggiare nel mondo, partendo dal cuore piccolo del Museo dell’innocenza.
OP: Dopo aver realizzato il museo e il romanzo, la domanda più frequente che mi veniva rivolta era: “Pamuk, sei tu Kemal?” Una domanda che è cieca a tutti i miei sforzi riguardo alle mie ironie sulla narrativa e la realtà e l’autobiografia. Qual è stata la domanda più frequente che ti è stata posta dopo che la gente ha visto, ad esempio, Orbite Rosse o il nostro nuovo video?
GT: Sarei così felice se qualcuno finalmente mi chiedesse se Orbite Rosse sono io… Invece la gente mi chiede sempre: “È vero?” Che anche per me è strano, perché è un interrogativo ignaro di tutte le difficili relazioni tra realtà, immagini, arte e mente. Creiamo immagini e parole che, nello stesso momento in cui appaiono, diventano parte della nostra testa e della testa di ogni osservatore. Dove rimangono, trasformate in una speciale, invisibile e misteriosa energia, visibile solo nella nostra mente.